Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano

Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale

Report del seminario con la dott.ssa Silvia Amati Sas

A cura della Redazione Psicoanalitica del Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala
22 gennaio 2022

Sabato 22 gennaio il Centro Psicoanalitico dello Stretto ha il piacere di ospitare la dottoressa Silvia Amati Sas. La Dott.ssa Sas nasce a Buenos Aires, anche se vive in Europa da più di 50 anni, divisa fra Ginevra e a Trieste. Si laurea nel 1956 in medicina a Buenos Aires. Nel 1961 viene nominata capo equipe neuropsichiatra del Servizio Medico Pedagogico di Ginevra e si specializza in neuropsichiatria infantile nel 1968. E’ stata consulente e supervisore, psichiatra e psicoanalista, in diversi servizi psichiatrici di Ginevra. La violenza di stato nei paesi latino americani degli anni ’70 determina il suo interesse per le situazioni di violenza sociale e nella comprensione delle reazioni dell’individuo alla violenza estrema.

         L’incontro ruota attorno le tematiche del suo ultimo libro, “Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale”. Dopo una presentazione a cura della dottoressa Siragusa, l’autrice ha illustrato il suo lavoro, il quale, nonostante frequenti problemi di connessione, ha dato adito a molte riflessioni scaturite nella mente dei partecipanti, molte delle quali si sono concretizzate in un dibattito molto arricchente e stimolante. Il libro sottolinea l’interesse della dottoressa per i lavori dello psichiatra e psicoanalista argentino Josè Bleger, il cui pensiero le ha permesso di poter affrontare la terribile realtà delle persecuzioni politiche e sociali di esuli provenienti dai Paesi del Sud America.

Lo studio delle conseguenze psicologiche delle politiche repressive, persecutorie, delle torture, fisiche ma anche mentali, ha trovato in Bleger un riscontro teorico col quale poter meglio comprendere e addentrarsi nella realtà psichica di pazienti con storie di vita che rasentano l’inumano. Tali vicissitudini spingono a interrogarsi fin quanto l’uomo possa andare oltre, contro sé stesso, non sentire il grido d’umanità che emana da ogni vita, perpetrando violenze sempre più cruente in nome di chissà quali ideali di giustizia, di onore, di bene supremo o quant’altro.

La Dottoressa Amati Sas sembra circumnavigare, con la levità di chi è molto competente, l’incertezza e quasi lo sgomento che si prova di fronte alla violenza istituzionale: nonostante la ricchezza vivace dei rimandi teorici (Bleger, Klein etc.), la cosa più preziosa dell’incontro ci pare la possibilità di sentire in noi germinare domande, una sorta di inafferrabilità concettuale, un senso di sconfinamento ontologico che potrebbe essere considerato la “versione soft” di quello che devono aver sentito le vittime.

Per questo motivo, anche l’analista è chiamato, tra l’altro, a fare i conti con una vasta gamma di dubbi “socio-esistenziali”, si potrebbe dire, in quanto ogni evento traumatico lacera il senso di consistenza del sé e della realtà, sfilaccia quel “filo logico” (molto sopravvalutato, a dire la verità, ma comunque necessario) che connette parti in un tutto, sia a livello identitario che a livello socio-politico.

L’ambiguità può divenire allora un’estrema forma di aderenza a una realtà cruentemente insensata, il conformismo una possibilità estrema di sopravvivenza e coesione di fronte a uno smembramento di significati e valori più o meno condivisi, travolti dall’onda lunga e dolorosa del trauma; un modo di “integrare” un vissuto di indigesta estraneità, approdando a un’artificiosa familiarità e appartenenze posticce. Si pensi, ad esempio, a quella che Pasolini considera una sorta di “mascherata”, riferendosi alla popolazione italiana durante il fascismo e le leggi razziali.

“Questo non lo so..” una frase che segna lo sgomento e profonda ambiguità nel riconoscere ciò che la realtà vuol presentarci. In un periodo come quello della pandemia da Sars covid-19, caratterizzando due anni delle nostre vite con profonda angoscia e malinconia, il profondo senso di incertezza che, nonostante tutto, ci ha portato a “conviverci” o come direbbe la dottoressa, a conformarci.

            Come riprende ed evidenzia la dottoressa Siragusa, la dottoressa Amati Sas sottolinea in merito all’esistenza umana, la capacità di adattarsi e conformarsi a qualunque contesto, circostanza, e al limite, di “adattarsi a qualunque cosa”. Sostiene che ci sia una capacità umana psichica di base di adattarsi a qualsiasi cosa, qualsiasi contesto, circostanza, una capacità plastica e malleabile che, nelle situazioni estreme, funziona come meccanismo di sopravvivenza. È una capacità umana che si può attribuire anche al neonato, che si adatta e accomoda al contesto di vita e ambiente culturale che trova alla sua nascita. Per qualsiasi professionista che si occupi di relazioni umane, è importante riconoscere questa nostra parte accomodante, perché essa è fonte di compromessi inconsci che potrebbero portare inconsapevolmente ad una collusione, un pericoloso conformismo appunto.

Il contributo fornitoci nell’incontro di sabato scorso dalla Dottoressa Silvia Amati Sas è stato motivo di profonda riflessione non solo per quanto concerne il ruolo della clinica nel lavoro di analisi, ma anche da un punto di vista personale. Molte volte, ci si chiede perché alcuni accadimenti debbano realizzarsi proprio a noi, che, come strumenti mettiamo in pratica una serie di comportamenti volti all’agire. Un agire che è tentennante, poco resistente e forse, a proposito di resistenza la domanda sarebbe:

Sono capace di contenere tutto ciò? In questo, l’analisi potrebbe avere in sé la sua risposta. Come ricorda lo stesso Bion, il paziente è un collega dell’analista, poiché sono entrambi che nel lavoro si incontrano, come l’incontro di due anime che nel nome dell’amore tendono ad uniformarsi.

L’uniformità che, da sempre, manca dentro la società. Quella cultura che al posto di unire tende a separare, creando ambiguità e idee stereotipate che, come catene, ci intrappolano attorno quell’albero di nave che ci accompagna nel viaggio che chiamiamo vita. 

Silvia Amati Sas ha definito l’ambiguità come quell’elemento di difesa oggetto di obnubilazione, favorendone adattamento, costituente il senso di identità. La paura della scomparsa dell’analisi, sottolinea la Dottoressa Amati Sas, che potrebbe essere determinata dall’inoperabile dentro la società, il timore di investigare circa il passato, l’importanza della storia che ci ha preceduto e che ci ha costituito, un po’ come sottolinea l’antropologo Marco Aime nella sua opera “Comunità”. Le persone tendono a vivere in un incessante presente, lo stesso che in maniera ambigua, si pone come ad un bivio: passato- futuro e dei quali non abbiamo l’assoluta certezza di quanto era e di quel che sarà.

La Dottoressa Amati Sas, partendo dai presupposti teorici di Bleger, pone una relazione tra psichico e sociale, in cui per adattamento di resistenza soggettiva e collettiva, si cerca di integrare l’intrapsichico, l’intersoggettivo e il transoggettivo. L’ambiguità viene descritta come espressione clinica di un processo di indifferenziazione psichica di base che crea un nucleo agglutinato ambiguo che rappresenta la nostra parte arcaica, fisiologicamente attribuibile, e che pertanto lascia intendere come il senso di appartenenza sia incarnato in ognuno.

Stando al modello teorico di Melanie Klein, la posizione ambigua precederebbe le sue due posizioni: schizoparanoidea e depressiva; queste due posizioni coesistono e alternano la loro presenza nell’Io, non solo come difesa. L’ambiguità corrisponde ad una posizione pre-schizoparanoide. Per Melanie Klein, la posizione schizoparanoide è una posizione di bivalenza, da non confondere con l’ambivalenza, segnata da antinomie, come distinguere il buono con il cattivo. Queste contraddizioni stanno in diversi soggetti, mentre nell’ambivalenza si percepisce più maturità

L’ambiguità è formata da aspetti depositati che rimangono inconsci e altri che sono mobili; essa è ambigua e risponde ai bisogni del momento e si muove attraverso lo spazio intersoggettivo. L’ambiguità può essere intesa come confusione, dubbio, incertezza: essa viene percepita all’esterno, ma non dal soggetto stesso; costituisce una barriera negli eccessi di affetti, paura e ansia.

La posizione ambigua è un movimento o un passaggio tra posizioni. Essa è l’espressione clinica di un nucleo ambiguo, sostenuto dagli altri perché è proiettato fuori da sè dall’ambiente, paragonabile all’inconscio originario di Freud, che è inerte e ambiguo.

Secondo Bleger questo “nucleo” deve essere proiettato e depositato in “depositari” esterni attraverso un “legame simbiotico” e ciò dà al soggetto sentimenti di sicurezza e di appartenenza. Il fatto di tenere il depositario fuori di sé da sentimenti di sicurezza e di appartenenza. Tende a familiarizzare. Però, quando questo nucleo ambiguo perde i propri depositari nel mondo esterno, la reintroiezione dell’ambiguità provoca nel soggetto angoscia, depersonalizzazione, una coscienza iperlucida, insicurezza e panico, obnubilamento, perplessità, seguito dalla ri-proiezione del “nucleo ambiguo” in nuovi depositari, nel contesto in cui il soggetto si trova in quel momento.

Ma perché il depositario è solito cambiare? A ciò il contributo delle neuroscienze potrebbe giovare in nostro vantaggio rispetto a come biologicamente siamo già preimpostati e come, nonostante tutto, la “umvelt” cioè l’ambiente con annessa cultura, sia particolarmente pervasiva in questi fenomeni di modificabilità interna legata alla sfera emotiva e alla cognizione. Quando avvengono queste modifiche, non si ha alcuna consapevolezza, inducendo a quel processo di Alienazione in cui il nucleo agglutinato fa un brusco ritorno all’Io. L’alienazione non è solo personale, poiché richiede la presenza anche di un alienante.

L’obiettivo del terapeuta sta nel richiamare alla trasformazione dell’alienazione e nella capacità di giudizio del paziente, nonostante egli stesso sia in grado di giudicare la situazione che ha subìto.

L’ambiguità viene intesa come una qualità dei fenomeni psichici, una posizione del soggetto, un compromesso verso gli altri. È la materia prima del clima dei gruppi, è la posizione dell’Io di non conflittualità, è la qualità dello stato indifferenziato della mente, non è un sentimento, è una posizione interna che abbiamo tutti e non va a giudizio. Uno dei punti che, in questa scienza della tortura è emerso è l’allarme etico del terapeuta, in quanto possessore di una modesta onnipotenza: deve cercare di far riemergere nel paziente la motivazione alla risoluzione dei propri conflitti interni. 

Questo lascia intendere come l’analisi sia un mettersi a nudo, come direbbe la Dottoressa Nicolò una “vocazione sociale”. La stessa che ci spinge ad andare oltre quella cecità, piuttosto guardare al problema con gli occhi del paziente, che vuol sentirsi contenere, esattamente come una madre fa con il proprio bambino.

A cura di:

Caterina De Francesco
Alice Giunta
Maria Rosa Irrera
Davide Carmelo Magistro
Fabiola Merlino
Maria Mauro.

Con l’approvazione della dott.ssa Amati Sas

http://www.psychomedia.it/pm/indther/latinoam/brunner.pdf