Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
La Società Psicoanalitica Argentina fu fondata nel 1942, la sua crescita coincise con il golpe militare del 1955 che portò alla caduta di Perón.
Gli psicoanalisti della giovane società argentina costituirono un gruppo attivo, caratterizzato da uno spirito pionieristico in molti campi di ricerca: le malattie psicosomatiche, le psicosi, i gruppi, il sociale.
L’enfasi sul concetto di identificazione proiettiva nella psicoanalisi argentina riflette la forte influenza del pensiero kleiniano.
È impossibile comprendere il lavoro di un qualsiasi analista latino-americano senza prendere in considerazione Pichon Rivière.
Pichon Rivière fu uno dei primi a comprendere che l’individuo malato appartiene a un gruppo familiare altrettanto malato; nella sua opera Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale (1971) scrive: “Le strutture di legame che includono il soggetto, l’oggetto e le loro reciproche interazioni, si formano sulla base di esperienze precocissime (…). Questo insieme di relazioni interiorizzate in permanente interazione e sottoposte all’attivazione di meccanismi e tecniche difensive, costituisce il gruppo interno con le sue relazioni, contenuto della fantasia inconscia”.
Pichon Rivière non ha lasciato molti scritti, preferendo una trasmissione orale del suo insegnamento, ma attraverso tale insegnamento ha tuttavia plasmato l’identità della comunità psicoanalitica argentina grazie a concetti chiave come quello di vincùlo (legame) e di teorie come quella del depositante, del depositario e del depositato, che hanno prefigurato l’odierna teoria del campo psicoanalitico.
Egli introdusse il concetto di “portavoce”, attraverso cui un membro del gruppo si trasforma nel portavoce e depositario dell’ansia del gruppo. Quindi, le tensioni generate nel sistema familiare patogeno vengono attenuate dalla loro proiezione su di un membro in particolare che, sentendosi sovraccarico, si psicoticizza. Il paziente, essendo depositario degli aspetti patologici di ciascuno degli altri membri del gruppo, preserva inconsciamente la famiglia dal caos e dalla distruzione, e diviene simultaneamente l’oggetto di una segregazione. Il portavoce ha una doppia posizione attiva/passiva perché a sua volta compie un’azione e subisce i nodi inconsci del gruppo di appartenenza.
La visione della famiglia come gruppo costituisce uno dei contributi maggiori di Pichon Rivière alla psicoanalisi familiare e di coppia. La psicosi perciò viene collocata al centro di un complesso funzionamento familiare e per risolverla occorrerà lavorare con tutta la famiglia.
L’Argentina è stata una delle nazioni in cui la psicoanalisi familiare ha avuto un precoce e fecondo sviluppo.
Jorge García Badaracco (1923-2010) fu uno psichiatra e psicoanalista argentino fortemente radicato nel pensiero freudiano; negli anni ‘80 divenne Presidente della Società Psicoanalitica Argentina. Si era formato in Europa: fece un’analisi a Parigi con un analista didatta della Società Psicoanalitica Francese (Nacht) e seguì i seminari di Lacan per cinque anni. Nella sua permanenza in Europa cercò di farsi un quadro delle varie realtà della psichiatria presenti nel continente, con una particolare attenzione a quella tedesco-svizzero-austriaca. Nella seconda metà degli anni ‘50 tornò a Buenos Aires, dove la sua esperienza clinica, ospedaliera e privata, si orientò soprattutto verso la cura della psicosi. Furono proprio i limiti riconosciuti della psicoanalisi ad affrontare i quadri psicotici a spingerlo a sviluppare il concetto di Psicoanalisi Multifamiliare.
Jorge García Badaracco iniziò a mettere a punto il gruppo di psicoanalisi multifamiliare quando divenne direttore di un reparto dell’Ospedale Psichiatrico Maschile Borda di Buenos Aires intorno agli anni ‘60 (fu direttore di questa struttura dal 1958 al 1968).
In una prima fase J.G. Badaracco restituì ai pazienti gli spazi che originariamente sarebbero dovuti essere loro dedicati all’interno dell’Ospedale. Invitò i pazienti a tornare a vivere nelle stanze periferiche del reparto, fino a quel momento occupate dal personale, e a liberare il salone centrale dai letti. Ricostruì un’atmosfera più umana nei confronti dei pazienti, portò dei mobili da casa e arredò un piccolo salotto in un angolo di questa grande sala.
In seguito li invitò a partecipare a un gruppo, che si teneva tutti i giorni a mezzogiorno in reparto e a cui, dopo una certa titubanza, cominciarono a partecipare in molti, finché a un certo punto iniziò a manifestarsi l’idea di una possibile dimissione di alcuni di loro dal reparto stesso, visti i loro miglioramenti, in parte anche dovuti all’iniziale utilizzo, in quegli anni, degli psicofarmaci.
A quel punto J.G. Badaracco convocò i familiari dei pazienti per comunicare che alcuni di loro potevano essere dimessi e tornare a casa. I familiari si mostrarono contrari, ma iniziarono a partecipare al gruppo e a discutere quindi delle difficoltà presenti e passate.
Tra il 1968 e il 1993, nella comunità terapeutica privata DITEM di Buenos Aires (una comunità terapeutica di 40 posti letto), sperimentò ulteriormente questo modo di lavorare, attraverso il gruppo di psicoanalisi multifamiliare, che si andò ad aggiungere ai trattamenti psicoterapici individuali, familiari e del piccolo gruppo psicoanalitico.
Si costituì uno spazio in cui fosse possibile dare luogo a una “conversazione” paritaria tra tutti i presenti, affinché ognuno avesse il diritto di esprimere quello che pensava e il dovere di ascoltare quello che l’altro diceva.
Un “luogo psicologico” in cui potevano essere discussi i principali problemi legati allo sviluppo dei figli e ai rapporti che si creano nelle famiglie nel corso del tempo.
Nel gruppo in cui erano presenti i pazienti e i loro genitori, o comunque dei loro familiari, Badaracco osservò come i figli apparissero delle caricature del genitore a cui risultavano più legati, come se avessero desiderato in tutti modi di assomigliargli, dimenticandosi di sé. Questa osservazione lo aveva portato a pensare che tra i due non si fosse messo in moto il processo di separazione-individuazione e che, viceversa, si fosse costituito il legame simbiotico.
Il figlio, piuttosto che distaccarsi progressivamente, aveva preferito rimanere nell’orbita del genitore a cui si sentiva più affine, e da cui sentiva che non avrebbe potuto separarsi, come se il genitore non fosse in grado di tollerarlo e di riconoscere il figlio come un’entità separata da sé e in grado di decidere con la propria testa. Nel gruppo si evidenziava come in queste famiglie si sviluppassero dei processi identificativi patologici che non permettevano al figlio di acquisire una propria identità. Tali processi determinavano dei legami apparentemente inscindibili tra il figlio e il genitore: le cosiddette interdipendenze patologiche e patogene come le definì J.G. Badaracco, delle vere e proprie gabbie al cui interno figli e genitori erano imprigionati.
Se si inquadrano le vicende che conducono alla psicosi da questa prospettiva, appare chiaro che i pazienti inizino a stare male praticamente dal primo anno di vita e che la prima crisi è un tentativo doloroso e maldestro di rompere queste interdipendenze.
Nicolò, citando l’oggetto che fa impazzire di Badaracco, scrive: “L’ipotesi dell’oggetto che fa impazzire, inteso come un elemento patologico e patogeno introiettato nelle relazioni traumatiche gravi, è particolarmente esplicativa e mostra la stretta relazione tra il funzionamento del soggetto e quello dei suoi genitori, in particolare la sua identificazione con i meccanismi di difesa usati dai genitori nella loro relazione con il figlio”.
Le identificazioni devono essere considerate come elementi vivi dentro ciascun essere umano.
I processi identificatori sono presenti fin dallo sviluppo mentale precoce e rappresentano una forma originaria di legame emotivo con l’oggetto (Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921). Le identificazioni sono il primo vincolo strutturato dell’individuo con i suoi simili.
Il soggetto scopre sé stesso identificandosi per primo con l’altro.
Le identificazioni che promuovono la normale strutturazione dell’apparato psichico contribuiscono allo sviluppo delle risorse egoiche.
All’inizio della vita vi è un’esperienza di fusione tra il bambino e la madre. Il bambino usa le risorse egoiche del genitore come se fossero le proprie.
Quando le identificazioni si collocano dentro un vincolo simbiotico sano, in una relazione di dipendenza, il figlio può utilizzare le figure genitoriali come parte di sé stesso, sviluppando, attraverso identificazioni strutturanti, risorse egoiche proprie.
In queste condizioni i genitori sostengono l’Io spontaneo immaturo nella crescita e il bambino può giocare le sue identificazioni in un processo per “tentativi ed errori”.
Nelle identificazioni strutturanti si giocano meccanismi di assimilazione e di accomodamento tra il soggetto e l’oggetto della relazione oggettuale, mediante i quali si arricchisce lo scambio che diventa ogni volta più creativo.
Dalla dipendenza si va così passando lentamente a un’interdipendenza reciproca sana, ogni volta più ricca, all’interno di una relazione dove appare la dimensione intersoggettiva che consente la differenziazione Io/non Io, così come la distinzione tra l’Io e l’altro.
I processi identificatori possono apportare elementi positivi per lo sviluppo della personalità o, al contrario, condizionare incorporazioni negative che contribuiscono a configurare strutture patologiche.
La mente del bambino, quindi, secondo Badaracco, si costituisce all’interno di un campo di interdipendenze reciproche che possono essere normogeniche, generatrici di salute, ma anche patogeniche, generatrici di vissuti traumatici e che fanno impazzire.
Nelle identificazioni patologiche troviamo sempre una storia di situazioni traumatiche che impattano sull’Io immaturo e/o per il quale non vi è stata una funzione sufficientemente buona di un Io ausiliario da parte del genitore.
Come nel caso di genitori che hanno aspettative, esplicite o nascoste, estremamente rigide nei confronti del figlio, che diventa un oggetto idealizzato del loro mondo interno, già prima di nascere, o genitori che sperimentano l’impossibilità di vivere la separazione da quel figlio, in quel momento della loro vita, per la presenza di situazioni traumatiche. In queste condizioni il bambino non può sviluppare il suo Io sulla base della spontaneità, ma è costretto, in modo più o meno inconscio, a confermare le aspettative dei genitori, diventando un figlio che accetta di non separarsi dal genitore, rinunciando al suo vero Sé.
Badaracco sostiene che il figlio non riesce a portare a termine un vero e proprio processo di identificazione, rimane identificato con uno o entrambi i genitori con cui dà luogo a dei legami di interdipendenza patologica e patogena perché non permettono lo sviluppo dell’Io.
Le identificazioni patologiche restano dissociate e si organizzano come parti scisse della mente. Questi oggetti incorporati per “identificazione”, nella patologia mentale grave, giocano un ruolo fondamentale come “presenze alienanti che fanno impazzire”.
In queste situazioni le figure parentali, invece di fornire la possibilità che il soggetto sia sé stesso, in realtà lo invadono, lo parassitano, lo abitano e occupano il posto del sé, impedendogli di essere il padrone della propria vita, e condizionandolo a vivere la vita alla maniera dell’altro, in riferimento all’altro, come propaggine dell’altro, sia nella realtà esterna che in quella interna.
In queste relazioni oggettuali narcisistiche Badaracco sostiene che l’identificazione risulta molto importante sia per quanto riguarda l’introiezione che la proiezione. Quando il figlio incorpora onnipotentemente un aspetto patogeno della madre, il sé risulta talmente identificato con l’oggetto incorporato da non garantire tra l’Io e l’oggetto stesso una separazione che permetta a ciascuno un’identità propria.
Con il concetto della “presenza degli altri in noi” (“los otros en nosotros”) Badaracco fa riferimento alle presenze che si sono strutturate nella mente dell’individuo a partire dalle interdipendenze patologiche e patogene, che si sono inserite come presenze nel mondo interno della persona.
L’oggetto che fa impazzire è un oggetto interiorizzato genitoriale che considera il figlio parte di sé, non separato da sé, ma fuso insieme a lui e che gli invia, in eterno, messaggi di disconferma circa la possibilità di acquisire la capacità di costruire un proprio sé autonomo.
Per Badaracco la situazione di dipendere e di avere sempre più bisogno di un oggetto che fa impazzire, conduce inevitabilmente (da questo la sua specificità) a un’identificazione patogena con lo stesso; viene accettata l’idea che sia l’altro a definire quello che è giusto che io senta, pensi, dica e faccia. Questo atteggiamento, che inizialmente viene subito, viene successivamente imparato dal paziente, che comincia ad applicarlo nei confronti del genitore costringendolo in una posizione speculare a quella in cui il paziente stesso si è trovato.
Si configura così, dentro l’apparato psichico, un’organizzazione polarizzata di una coppia patologica simbiotica del tipo padrone-schiavo, in cui entrambi giocano ruoli intercambiabili e reciprocamente imprescindibili, senza la possibilità di una vera individuazione o autonomia.
Le parti del sé indesiderabili, perché fonti di dolore e ansia, sono proiettate in modo onnipotente negli altri, che sono così usati come depositari. Il malato mentale, a partire dalla crisi psicotica, si trasforma in una specie di stabilizzatore della struttura familiare malata.
Inquadrata da questo punto di vista, la psicosi non è più un problema che riguarda una persona sola, bensì tutti i membri della famiglia.
Genitore e figlio sono bloccati in una relazione nella quale ognuno dei due non può riconoscere l’altro come “altro da sé” (Ferenczi 1989); le interdipendenze patologiche costituiscono vere proprie prigioni in cui il paziente viene intrappolato sentendosi sempre l’altro, e non potendo costruire un proprio sé vero.
Il genitore, a sua volta, viene costretto a vivere lo stesso tipo di legame dal figlio, ed entrambi rimangono incastrati a vivere in questa situazione.
Scrive Mitre: “Quando parlo di ‘trama ammalante’ mi riferisco all’azione delle interdipendenze reciproche tra il paziente e i familiari, ognuno dei quali contribuisce a far impazzire l’altro”.
L’adolescenza rappresenta il momento in cui l’incontro con gli altri diventa più pressante ed è richiesto un movimento progressivo verso l’inserimento sociale, all’esterno della famiglia; il fallimento di questa tappa evolutiva può determinare la crisi.
Il ragazzo si sente e viene percepito come diverso, talvolta anche diventando vittima di episodi di bullismo, si chiude in sé stesso e smette di comunicare con gli altri, si rifugia nei rapporti che sente come sicuri, quelli con i genitori, le uniche persone che, a modo loro, sente che gli vogliono bene e che non lo rifiutano. Il paziente, ammalandosi psichicamente, torna a essere piccolo e, quindi, meno responsabile della propria vita e, implicitamente, sollecita il mantenimento di un assetto costante nella relazione con il/i genitore/i.
Il genitore torna o inizia a svolgere la funzione di “contenitore delle angosce” nei confronti del figlio, ma in una forma non evolutiva. Entrambi rimangono prigionieri di una situazione che non evolve, costituitasi, in una fase molto precoce dello sviluppo, sull’impossibilità di un genitore di vivere la separazione dal figlio, in quel momento della sua vita, e da un figlio che diventa contenitore degli aspetti dissociati e traumatici del genitore.
Vi è una trasmissione transgenerazionale del dolore che diventa espressione dell’abitare l’altro, ma la traccia mnemonica, il ricordo traumatico, viene perso per l’impossibilità di essere narrato dalle stesse vittime. Il dolore da cui il genitore si è difeso attraverso meccanismi arcaici di diniego, scissione, dissociazione, si incista nella psiche del figlio; il dolore inoculato da inconscio a inconscio costituisce un potente vincolo tra il genitore e il figlio. Quest’ultimo si fa carico della sofferenza del genitore, con un’inversione di contenitore-contenuto.
In questo senso, la crisi psicotica, sia quella caratterizzata dalla chiusura, sia quella più produttiva, diviene un’occasione per sperimentare la possibilità di cambiare. La rottura psicotica può diventare anche una rottura del legame simbiotico, e può rappresentare una possibilità di svincolo per far sì che genitore/i e figlio smettano di occuparsi ciascuno delle sofferenze dell’altro, ma inizino a occuparsi ciascuno della propria.
Nel gruppo di psicoanalisi multifamiliare la narrazione emotiva della storia personale del genitore e degli eventi traumatici familiari costituisce un passaggio verso la differenziazione delle sofferenze dei singoli membri.
Si tratta di gruppi eterogenei e aperti di psicoterapia, ai quali partecipano il paziente e la sua famiglia. È possibile che la famiglia non frequenti nella sua totalità, o anche che lo faccia uno solo dei suoi membri. Può anche accadere che il paziente stesso si rifiuti di partecipare. Una delle caratteristiche del gruppo è che possono essere presenti diverse figure professionali (psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, operatori del servizio).
È possibile integrare la partecipazione al GPMF con le forme di psicoterapia più tradizionale (psicoterapia psicoanalitica individuale, psicoterapia familiare, psicoterapia del piccolo gruppo di pazienti omogenei a indirizzo psicoanalitico, psicoterapia di coppia).
L’atteggiamento che più caratterizza l’azione terapeutica, che Jorge García Badaracco propone all’interno del GPMF, è l’attenzione prioritaria alla sofferenza psichica, sia dei pazienti, spesso tormentati e incompresi, sia dei familiari, con i quali, talvolta, può sembrare apparentemente ancora più difficile stabilire un rapporto empatico. Uno dei primi articoli scritti di Badaracco verteva sulla Relazione Terapeutica Negativa; egli aveva notato che i miglioramenti ottenuti dai pazienti, nel momento in cui tornavano a casa dal ricovero, si perdevano e aveva intuito l’importanza di iniziare a prendersi cura delle famiglie attraverso l’utilizzo del gruppo.
Tre regole del GPMF:
Badaracco prima di entrare nel gruppo diceva “vamos a aprender”, il GPMF è un luogo di apprendimento, a patto che chi vi partecipa rinunci all’idea di pretendere di avere ragione e accetti di poter tollerare l’espressione di punti di vista differenti dal proprio da parte degli altri.
Per Badaracco il gruppo eterogeneo rappresenta un arricchimento, per la possibilità che dà alle famiglie di confrontarsi con situazioni diverse, con personaggi di altre famiglie molto diversi da loro, con modi diversi di fare il padre/il figlio, di vivere le relazioni familiari. I partecipanti possono trovare in questo confronto una possibilità di riconoscere negli altri parti di sé non utilizzate.
Andrea Narracci indica tre “meccanismi” di funzionamento del gruppo.
I componenti di un nucleo familiare patologico non hanno occasione, nel corso della vita, di tirarsi fuori dalla loro situazione e di mettersi a osservare, dall’esterno, quello che accade tra loro. Nel gruppo di psicoanalisi multifamiliare essi si possono rispecchiare metaforicamente nel modo di funzionare di uno, o più di uno, dei nuclei familiari che si trovano di fronte e iniziare a riflettere su come imparare a non ripetere acriticamente, all’infinito, gli stessi errori.
Nel gruppo ognuno può anche sentirsi autorizzato a intervenire per far capire al suo “omologo” come dovrebbe vedere le cose, perché lui ha capito come stanno; è difficile immaginare che qualcuno sia in grado di intervenire meglio del protagonista di una storia omologa.
Per descrivere e aiutare a descrivere i vissuti di sofferenza può essere molto utile far ricorso all’uso della metafora.
Nel gruppo ognuno può improvvisamente capire come stanno le cose anche “a casa propria” vedendole avvenire “a casa dell’altro”. La famiglia a transazione psicotica può recuperare la capacità di rappresentare nella propria mente l’immagine della propria famiglia; questa capacità non era andata perduta, ma non veniva più usata dai vari membri della famiglia.
La comunicazione, soprattutto per quanto riguarda le due persone principalmente coinvolte nell’interdipendenze patologiche patogeno, si svolgeva prevalentemente scambiando messaggi di relazione non di contenuto. Ogni cosa detta, che aveva un valore in termini di contenuto, veniva strumentalizzata ai bisogni legati alla lotta per stabilire chi aveva la capacità, in quel momento, di definire il modo in cui leggere la realtà e quindi di prevalere sull’altra parte dell’insieme simbiotico o fusionale familiare.
Nell’intervista rilasciata a Narracci, Badaracco in merito ai transfert multipli spiega: “Il transfert è un concetto che viene dalla psicoanalisi… all’interno del movimento psicoanalitico si scoprì che il transfert aveva a che fare necessariamente con un altro fenomeno, il controtransfert. Quindi il transfert non era solo una proiezione di fantasie o pensieri o emozioni di un paziente nell’analista, (…) ma era anche una partecipazione particolare dell’analista rispetto al paziente, e senza questo interscambio non c’era un reale transfert. Per cui transfert e controtransfert sono parte di uno stesso fenomeno, ma si era sempre pensato che questo fosse un fenomeno specifico del contesto psicoanalitico, e invece risulta che il transfert è un fenomeno universale, che è presente in tutte le relazioni umane (…). In questo senso, siamo andati scoprendo forme di relazioni umane come l’intersoggettività, che è un concetto più moderno, più recente nel pensiero psicoanalitico, (…) ma è qualcosa che si perde con i pazienti gravi e scompare nella psichiatria, dove, se centriamo l’attenzione solo sugli psicofarmaci, non esiste più l’importanza dell’intersoggettività. In un contesto multi individuale, l’intersoggettività torna ad avere l’importanza che aveva non solo nel linguaggio verbale ma anche nella sfera del non verbale: nello sguardo, nei gesti, nei movimenti del corpo che acquisiscono una ricchezza enorme quando il paziente mentale grave, autistico e chiuso, comincia ad aprirsi, comincia a poter essere se stesso in questo nuovo contesto, cosa che non ha mai potuto fare nel suo contesto familiare; in realtà sembra che lo scopra per la prima volta nel contesto multifamiliare, perché in casa non lo conoscevano; quindi si tratta di qualcosa di nuovo ed importante, ed è molto importante anche per gli psichiatri, è un fenomeno che impone di pensare una virtualità sana dei pazienti”.
L’instaurazione dei cosiddetti transfert multipli costituisce una delle prime osservazioni che si verificano in un gruppo, e colpisce gli operatori: ben presto ci si accorge che un figlio riesce a parlare con il padre di un’altra famiglia e viceversa.
I transfert psicotici possono essere diluiti, spezzettati e ricomposti in un pensiero unico, a cui le menti di tutti i partecipanti, sia di quelli che parlano che di quelli che ascoltano, possono dare un contributo originale e significativo.
Quello che accade è che il gruppo inizia ad avere la capacità di formulare un pensiero che si compone attraverso i contributi del pensiero di ognuno dei partecipanti, sia che parli, sia che non riesca a esprimere verbalmente le proprie opinioni.
Si tratta di un pensiero complessivo, alla cui elaborazione ognuno può dare un contributo e che permette al gruppo stesso di funzionare come una “mente ampliada”.
Il compito degli operatori è di costruire uno spazio terapeutico in modo che in seguito sia il gruppo a divenire titolare della funzione terapeutica.
La richiesta, rivolta a tutti i partecipanti, di prenotare l’intervento costituisce la chiave di volta per promuovere il raggiungimento della mente ampliada nel corso del gruppo di psicoanalisi multifamiliare. Un partecipante sente, a un certo punto, l’esigenza di intervenire e si prenota. Mentre aspetta di farlo, quello che pensava di dire si mischia con quello che viene detto da altri.
Questa particolare condizione innesca un modo inconscio di funzionare della mente che fa sì, da un lato, che l’intervento di ogni persona contribuisca a costruire un pensiero complessivo del GPMF, rispetto a cui tutti i presenti possono sentire di aver dato un apporto, dall’altro compare il processo primario, per libere associazioni, che fa sì che quello che ognuno dice, quando interviene, non solo non è più quello che voleva dire inizialmente ma, soprattutto, permette di avere la possibilità di recuperare aspetti scissi e tenuti dissociati della mente dei partecipanti.
Nel GPMF tutti i partecipanti possono iniziare a riconoscere la possibilità di vivere i processi di disidentificazione: chi è identificato con un altro (tipicamente un figlio e un genitore) comincia a sentire di fare parte di un legame di interdipendenza patologica e patogena e può iniziare a rendersi conto di poter abbandonare i tratti di quel legame simbiotico, all’esterno del quale non avrebbe mai sentito, in precedenza, di poter vivere e di poter cominciare a interpretare la vita attraverso una propria capacità di coglierla, mai sperimentata prima.
I processi di disidentificazione appaiono sempre incerti, gravati da immagini ogni volta più minacciose: “… essendo la pseudo-identità collegata all’identificazione, si possono sperimentare stati emotivi di disorganizzazione e depersonalizzazione, angoscia senza nome, stati confusionali e terrore di impazzire o morire e il vissuto di essere indifeso e abbandonato risulta intollerabile” (Badaracco, 1985).
I momenti in cui si avvia un processo di disidentificazione si presentano come la fase più delicata di un percorso di cura; il vuoto prodotto dall’allentamento delle identificazioni patogene viene frequentemente riempito da agiti, i pazienti sono più esposti a ricadute e hanno bisogno di essere molto sostenuti perché è proprio in questa fase di “distacco” che possono comparire idee suicidarie (Mitre, 2009). Per cui risulta necessario talvolta il percorso comunitario, struttura intermedia, che assume la funzione di spazio di transizione.
Le maggiori resistenze all’espressione della “virtualità sana” derivano dal potere delle “presenze che fanno impazzire”, che hanno bloccato e continuano a bloccare lo sviluppo delle potenzialità soggettive, in particolare di quelle risorse necessarie per affrontare il cambiamento. Queste presenze agiscono nella mente da veri e propri “soggetti”, presenze allucinatorie o attori del racconto delirante, sottoponendo il paziente ad invasioni, talvolta percepite concretamente nel corpo.
Il Gruppo offre il sostegno necessario, attraverso meccanismi di rispecchiamento, a prendere atto di quanto paziente e familiari mantengano un potere “tirannico” al fine di evitare il confronto, doloroso ma necessario, tra mondo interno e mondo esterno, tra sé e altro da sé.
Verificare che le emozioni possono essere espresse e legittimate nel gruppo in un contesto di sicurezza psichica introduce un potente elemento trasformativo, dal momento che il carattere traumatico si è strutturato proprio intorno al disconoscimento delle emozioni, come se la persona avesse paura a entrare in contatto con queste, che sono vissute come un pericolo.
“Le emozioni hanno bisogno di essere legittimate perché una delle maggiori difficoltà dei pazienti gravi è quella di condividere le emozioni: si può apprendere che certe emozioni producono effetti positivi. Piangere calma. La tenerezza ammorbidisce e può intristire. Eccitarsi dà voglia di vivere. L’innamoramento produce cambiamenti profondi. L’amore possiede proprietà curative” (Badaracco, 1991).
Nel momento in cui si risvegliano le emozioni e i vissuti collegati alle esperienze traumatiche, tali esperienze iniziano a perdere il loro carattere di ripetizione compulsiva, riducendo il proprio potere patogeno.
L’aspetto trasformativo più evidente del gruppo è che i funzionamenti mentali fusionali iniziano ad aprirsi, rendendo possibile l’inclusione del “terzo” con funzione differenziante. Gradualmente le persone procedono al riconoscimento dell’altro come soggetto esterno distinto e reale e, contemporaneamente, si avvia il processo di superamento del ruolo di personaggio senza una propria struttura.
Nel Gruppo Multifamiliare le interdipendenze patologiche e patogene possono trasformarsi in normogeniche, cioè, pur rimanendo dei legami speciali, possono consentire che ogni componente, figlio e genitore/i, viva dei processi di disidentificazione dalla identificazione patologica e patogena nella quale è immerso e, finalmente, utilizzando risorse egoiche che prima non sapeva di possedere, sia in grado di recuperare una propria “virtualità sana”.
La virtualità sana è uno dei concetti fondamentali della teoria di J.G. Badaracco.
L’autore, con questo concetto, non intende indicare una parte sana del paziente, ma una parte potenziale, che può sviluppare delle risorse egoiche nuove, nel momento in cui il paziente viene liberato dalla gabbia creata dalle interdipendenze patologiche e patogene che ne hanno inibito lo sviluppo.
Questa concezione determina un cambiamento di prospettiva nella cura, che pone l’accento sulle potenzialitàinvece che sui sintomi, e sposta il focus dal mondo intrapsichico a quello interpersonale delle relazioni.
Il gruppo di psicoanalisi multifamiliare può consentire di avviare il processo che porta allo sviluppo della virtualità sana.
Una volta innescata tutta una serie di modificazioni, rispetto all’atteggiamento di fondo, alle emozioni, ai sentimenti e al pensiero, può divenire automaticamente percepibile, da parte di ognuno, l’accesso a una virtualità sana, facendo ricorso a delle risorse genuine dell’Io che, fino ad allora, non erano state mai utilizzate.
Sono risorse che possono modificare radicalmente il profilo di funzionalità di ciascuno degli individui coinvolti nel gruppo.
Uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Badaracco è la convinzione che nelle persone, indipendentemente dall’età che hanno e dal livello di cronicità del disturbo di cui soffrono o in cui sono coinvolti, sia presente, seppure nascosta, una virtualità sana.
È molto importante che ognuno dei partecipanti del Gruppo Multifamiliare possa scoprire che sia ancora possibile sorprendersi, scoprire di non sapere tutto di sé e dell’altro e che, più ci si rende disponibili ad ascoltare il parere dell’altro, più risulta possibile tornare o iniziare a meravigliarsi e a nutrire la speranza di un cambiamento.
La convinzione dei terapeuti, che pazienti e familiari abbiano la capacità di riaggregare segmenti di sé che abitano nell’altro e di espellere da sé parti dell’altro da cui si sentono abitati, conferisce ai pazienti una nuova capacità di confidare su sé stessi e sugli altri, capacità che ritenevano di avere perduto.
Focalizzando l’attenzione sulla necessità di riacquisire le parti di sé depositate nell’altro e sull’evitare che l’altro deponga nuovamente parti di lui, è possibile ricostituire i “confini” e giungere a intravedere la “virtualità sana” presente nelle persone: il modo in cui avrebbero potuto e voluto essere e non sono mai state, almeno fino a quel momento.
Quando J.G. Badaracco parla di virtualità sana, parla di qualcosa che sta tra il paziente e il terapeuta, che ha a che fare con il processo che si istaura nella relazione terapeutica: per attivarsi necessita che lo sguardo del terapeuta la cerchi, nella convinzione che esista qualcosa di potenzialmente sano nel paziente, da far emergere. La potenza del cambiamento dello sguardo sul paziente, come colui che possiede una virtualità sana, in opposizione allo sguardo della famiglia che non sollecita il cambiamento.
Badaracco sottolinea l’importanza di poter “andare all’incontro” in un modo diverso, cercando non di vedere il paziente, ma la persona, poiché guardare una persona che ha dei problemi psichici come se fosse “malata” è qualcosa di potenzialmente iatrogeno, che fa ammalare ancora di più. Questo diventa evidente nelle famiglie in cui uno dei membri presenta un episodio psicotico acuto: tutti cambiano il modo in cui lo guardano. Si entra in un circolo vizioso che fa ammalare. I famigliari sono spaventati, ma anche il paziente lo è, e ha bisogno di poter contare su qualcuno per smettere di avere paura. Se percepisce di fare paura, si trasformerà in qualcuno che fa ancora più paura, in modo da poter negare che è lui quello spaventato, e poter invertire la prospettiva.
La paura che si genera attraverso lo sguardo ha il potere di far ammalare, molto più grande di quello che hanno le parole stesse, perché penetra direttamente nell’inconscio.
Il modo di guardare un paziente ha molto a che vedere con quello che ci si immagina di lui; il poter vedere la virtualità sana condiziona il modo in cui lo guardiamo, e pertanto come egli si sentirà guardato. Sentirsi guardato come una persona che ha una virtualità sana, genera speranza.
Badaracco sottolinea l’importanza dei legami di interdipendenza reciproca che si stabiliscono attraverso lo sguardo, questo diventa importante anche per produrre legami di interdipendenza normogenica che liberino le persone dalle interdipendenze patogene.
Per E. Bick lo sguardo della madre fa parte di quelle funzioni di contenimento con le quali il bambino acquista una specie di “pelle psichica” costitutiva del sé.
Winnicott, in Gioco e realtà (1967), dice che “il precursore dello specchio è il viso della madre”, ma “se il viso della madre non risponde, lo specchio diventa una cosa da guardare, non qualcosa in cui guardare dentro”.
I pazienti spesso non hanno sperimentato questa funzione di specchio, facendo sì che la loro virtualità sana rimanesse ingabbiata, in attesa di uno specchio in cui guardare.
Winnicott, in accordo con Badaracco, sottolinea la difficoltà, ma anche la necessità, che la psicoterapia diventi uno sguardo, un derivato complesso del viso che riflette ciò che è là per essere visto, la possibilità di restituire a lungo termine al paziente ciò che lui porta, in modo che possa trovare il proprio sé e che diventi capace di esistere e di sentirsi reale.
È la riunione che si tiene regolarmente alla fine di ogni gruppo di psicoanalisi multifamiliare e che deve essere pensata come parte integrante del gruppo stesso.
Permette agli operatori di ripensare e di confrontarsi sugli elementi clinici, che riguardano gli scambi che ci sono stati all’interno del gruppo, e di soffermarsi sugli effetti che percepiscono dentro di loro, in relazione alla partecipazione al gruppo. È molto importante che vengano affrontate entrambe queste dimensioni.
Il gruppo può essere illuminante per quanto riguarda la comprensione del modo in cui si presentano, più o meno palesemente, le relazioni tra i diversi componenti di ogni singolo nucleo familiare. Possono emergere, infatti, aspetti fino a quel momento difficilmente ipotizzabili, che permettono la rilettura delle situazioni e la loro riconfigurazione.
Dopo aver condiviso la sofferenza emersa nel gruppo può divenire più facile per gli operatori mettere a confronto le rispettive posizioni e giungere anche a ipotesi nuove di lettura delle situazioni. Come se condividere le emozioni che il gruppo mette in comune rendesse meno acute le differenze di base tra gli operatori, e permettesse loro di sentire di meno le diversità di partenza, e di più l’impatto emotivo da cui non hanno potuto esimersi.
Il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare può essere una risorsa anche per gli operatori e per le Istituzioni
Nell’articolo pubblicato da Tardugno, Walter, Mitre sulla rivista «Interazioni» del 2017 si parla di come il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare possa avere una funzione terapeutica anche per l’istituzione. L’istituzione può assomigliare “al modo di funzionare delle famiglie, nelle quali, al di là del ruolo manifesto che uno ha, la persona si integra in una rete di relazioni interpersonali latenti (…). Si mettono in atto relazioni transferali e si veicolano le componenti emotive personali più profonde. Le relazioni che si stabiliscono tra i membri dell’équipe e in tutta l’istituzione sono inter-relazioni: si realizza un processo di andata e ritorno, uno agisce sull’altro che risponde agendo, a sua volta, sul primo, che risponde nuovamente, in un processo di andata e ritorno che può continuare in modo infinito (Badaracco 2007). Nelle inter-relazioni entra in gioco il mondo di ciascuno che si relaziona con il mondo degli altri, creando legami e interdipendenze reciproche che possono essere normogeniche e sane, o patogene e patologiche, così come avviene nelle famiglie. Gli operatori possono chiudersi e pretendere di aver ragione senza la possibilità di ascoltare o condividere, generando un clima di discussione permanente. (…) ritornano le ansie persecutorie e si riproduce lo stesso clima che osserviamo nelle famiglie che accedono ai servizi”.
Il Gruppo può funzionare come terzo, non solo nella simbiosi tra genitori e figli, ma anche per quanto riguarda le dinamiche all’interno delle Istituzioni, creando un clima di fiducia e rispetto che permette di metabolizzare le angosce, anche quelle legate al cambiamento, diventando uno spazio mentale “ampliato”.
Lavorando nel Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare gli operatori sperimentano una situazione che permette l’emergere della virtualità sana del paziente e dei genitori, ma essa rappresenta una capacità potenziale, presente in tutti gli esseri umani, di disarmare il potere ammalante che hanno le presenze che fanno impazzire nel nostro mondo interno.
Il processo terapeutico non è, quindi, unicamente quello dei pazienti, ma anche quello dell’équipe e dell’Istituzione.
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