Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano

AMBIGUITÀ E CONFORMISMO

Dialogo a più voci con Silvia Amati Sas

Presentazione di Mara Siragusa

Sabato 22 Gennaio 2022

Non dimenticherò mai quella notte d’orrore […]

Notte che mi ha segnato per sempre. […]

Il mio Io doveva avere subito una profonda trasmutazione,

cancellando il peso del pericolo imminente.

h1Uno dei nostri compagni di sventura, che aveva appena perduto la moglie,

proruppe in singhiozzi e fuoriuscì titubante dai ranghi.

Quando il figlio tentò di soccorrerlo, i due uomini vennero fucilati sotto i nostri occhi.

Tutto questo non mi impressionò affatto,

esperimentavo l’accadimento come un fatto assolutamente banale.

Oggi questa assenza di reazione è per me  un enigma.

A causa di una tale trasformazione dell’Io la nostra facoltà di discernimento era falsata al punto da renderci impossibile non avere fiducia negli stessi carnefici.[…]

Questa metamorfosi dell’Io non era che una difesa, per permettere di respingere l’insostenibile.

 

(Histvan Hollos, Lettera a Paul Federn, 17 febbraio 1946)

Inizierò il mio intervento ponendo due domande. La prima è: “Come è possibile accettare l’inaccettabile?” e la seconda: “A cosa serve la psicoanalisi oggi?

Queste due domande sono state molto presenti sia nella lettura del libro della dottoressa Silvia Amati Sas “Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale” sia nei due gruppi di studio, quello del martedì al Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala e in quello con le colleghe del corso di psicoanalisi di coppia e famiglia, che abbiamo indicato come Gruppo Famiglia-Sas, e che ci accompagna da quasi un anno.

Mi sono accorta che in qualche modo queste domande sono state l’asse portante dei nostri incontri, forse, anche il motore che ci ha permesso di cercare delle risposte in questo periodo, molto inquietante e di estrema destabilizzazione, e di accostarci ad una teoria che potesse fornire strumenti diversi per la lettura della realtà, di ieri e contemporanea. Non mi sembra un caso che gli scritti della Dottoressa Sas e le teorie blegeriane stiano suscitando più che mai, in questi ultimi anni, un vivo interesse.  Procederò cercando di tratteggiare alcuni dei tanti concetti che sono emersi leggendo il libro e dialogando con la Dottoressa Sas, seguendo le tracce di queste domande.

La Dottoressa Silvia Amati Sas porta in Sè una realtà complessa e variegata. Nei suoi racconti emerge la ricchezza di più appartenenze. Quella della sua terra di nascita, l’Argentina, del suo tempo trascorso in Svizzera, a Ginevra, quella attuale in Italia, a Trieste, e quella, ancora più lontana delle sue origini familiari, dei nonni provenienti dalla Russia.

Discutere con lei del suo libro ci ha permesso di cogliere la sua capacità vivace di continuare a interrogarsi con curiosità ed apertura ai fenomeni attuali, ed anche di riconsiderare le sue stesse idee da vertici ancora nuovi. Ha affrontato, dagli anni ’70 ad oggi, una rigorosa e attenta ricerca teorica, unita ad una coraggiosa pratica clinica, quell’esperienza clinica che a volte è faticosa, dolorosa e scoraggiante pure da immaginare.

Ci ha raccontato di essersi chiesta più volte: “Perché è capitato a me di occuparmi di cose tanto terribili?”. E continua: “E’ la stessa domanda che spesso si fanno anche i pazienti”. Questa sua posizione mi ha molto colpito per la sua estrema onestà, umanità, capacità di andare dritto al cuore delle questioni, senza mezzi termini.

Scrive la Dottoressa Sas: “La mia preoccupazione psicoanalitica per gli effetti della tortura, ed altri aspetti della violenza di Stato sulle persone, è iniziata nel 1973, in seguito all’incontro con Irma, una giovane studentessa di medicina, Uruguaiana, di passaggio in Svizzera per testimoniare al tribunale Russell per i diritti umani sulla sua esperienza di prigionia a Montevideo, nel carcere Libertad (laboratorio della tortura in America latina). Come altri prigionieri, questa giovane aveva constatato, nella sua propria esperienza della tortura, che i torturatori avevano conoscenze precise di psicologia che applicavano nello svolgimento del loro compito. Irma mi chiese esplicitamente di denunciare questo fatto alla comunità degli “psi”. Sottolinea più volte il concetto di “scienza della tortura”, come qualcosa di ben organizzato, affatto casuale e, implicitamente e subdolamente, approvato da molti Stati.

Silvia Amati Sas ha cominciato allora a incontrare, nella sua veste di neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicoanalista, persone vittime di violenza politica e sociale, esuli provenienti da Cile, Brasile, Argentina, Uruguay.

Janine Puget scriveva che ci sono esperienze condivise da ciascuno, che diventano universali, anche se assumono, per ognuno, un significato peculiare. Esistono esperienze, invece, legate alla violenza sociale estrema che conferiscono alle vittime una sorta di unicità, restando incomprensibili per chi non le ha vissute. Sono pertanto esperienze che hanno a che fare con la dimensione dell’impensabile.

La preoccupazione teorica di psicoanalista della Dottoressa Sas è stata, in quel momento, cercare nel suo lavoro, un legame tra lo psichico e il sociale. Coniugare l’intrapsichico, l’intersoggettivo e il transoggettivo. Ha trovato in Bleger, sottolinea, autore psicoanalista marxista, nonché Argentino di origine ebrea, un punto di vista, anche socio politico, che ha permesso di utilizzare una teoria per spiegare, da un punto di vista psicoanalitico, le varie forme di adattamento e di resistenza soggettiva sia individuali che collettive alla violenza sociale.

Bleger, sviluppando alcuni concetti di Pichon Riviere, ha portato un contributo fondamentale, elaborando il concetto di ambiguità come espressione clinica di un’indifferenziazione psichica primaria di base, che costituisce un nucleo agglutinato ambiguo che è proiettato e depositato nel mondo esterno attraverso un legame, o vincolo simbiotico, su depositari esterni più o meno privilegiati, dai quali il soggetto si trova a dipendere psichicamente. Possono essere la famiglia, le varie appartenenze, le istituzioni, il contesto socio-culturale in cui il soggetto vive. Questa dipendenza dal contesto esterno, procura al soggetto un senso inconscio di appartenenza e di certezza, che per lui sono ovvi o scontati. E’paragonabile a ciò che Sandler (1960) chiama “background of safety” che implica una fiducia di base nel mondo circostante. Bleger non solo ha studiato le espressioni cliniche proteiformi dei movimenti del nucleo ambiguo in relazione ai depositari nel mondo esterno, ma ha anche elaborato la dinamica dell’ambiguità nel mondo degli oggetti interni (realtà psichica) sulla base del concetto di “posizioni” di Melanie Klein. Nello specifico, Bleger ha aggiunto la posizione ambigua (non conflittuale), che precederebbe le due posizioni conflittuali, schizo -paranoide (divalente) e depressiva (ambivalente), descritte da Melanie Klein. Le tre posizioni coesistono e/o alternano la loro presenza psichica nell’Io, e ciascuna può assumere una funzione di difesa nei confronti dell’altra. Nelle situazioni di violenza estrema, la posizione ambigua diventa una difesa maggiore; in questo caso la qualità mimetica dell’ambiguità protegge con l’adattamento, l’obnubilazione, l’indifferenza affettiva, il resto della personalità, che rimane come allontanata e sospesa.  Quando si verifica la sparizione violenta e massiccia dei depositari esterni, il nucleo agglutinato depositato al di fuori del Sé, fa un brusco ritorno sull’Io e si produce una reintroduzione del nucleo agglutinato che disorganizza temporaneamente gli aspetti più maturi e strutturanti della personalità, provocando sintomi acuti di disorientamento, perplessità, stupore ed estraneità, che si accompagnano ad un’intensa angoscia catastrofica e confondente. Poiché la premessa di Bleger è che il nucleo ambiguo non può rimanere senza depositari nel mondo esterno, quando si verifica una perdita di un contesto depositario, il legame o vincolo simbiotico tende a ristabilirsi immediatamente, automaticamente e senza nessuna scelta, nel contesto esterno in cui il soggetto si trova in quel momento. Questa nuova deposizione restituisce al soggetto sicurezza e familiarità con l’ambiente attuale, ovvero si ricompone sempre nell’inconscio una certa familiarità, concetto opposto a quello di estraneità. E la Dottoressa Sas sottolinea la qualità di non conflittualità e non contraddizione del nucleo agglutinato, la sua imprecisione, malleabilità, fluidità e permeabilità che gli permettono di plasmarsi, adattarsi e conformarsi a qualunque contesto, circostanza, e al limite, di “adattarsi a qualsiasi cosa”. Continua sostenendo che ci sia una capacità psichica umana di base di adattarsi a qualsiasi cosa, qualsiasi contesto, circostanza, una capacità plastica e malleabile che, nelle situazioni estreme, funziona pertanto come meccanismo di sopravvivenza. E’ una capacità umana che si può attribuire anche al neonato, che si adatta o accomoda al contesto di vita e ambiente culturale che trova alla sua nascita. Per lo psicoanalista, o per qualsiasi professionista che si occupi di relazioni umane, è importante riconoscere questa nostra umana e inevitabile parte accomodante, poiché essa è fonte di compromessi inconsci che impediscono di percepire e di prendere in considerazione le situazioni inaccettabili che potrebbero condurre, senza che ce ne rendiamo conto, a un’inconsapevole collusione o involontaria complicità morale con fatti distruttivi. Un pericoloso conformismo che, subdolamente, può farsi spazio in noi.

La Dottoressa Sas fornisce delle indicazioni terapeutiche che ho trovato chiare e illuminanti.

Nella psicoterapia delle situazioni estreme si tratta pertanto di rendere pensabile il trauma e le sue difese inconsce (dissociazione, obnubilazione, adattamento) e di offrire al paziente la possibilità di trasformare la propria “difesa tramite l’ambiguità” in ambivalenza critica e di cambiare la sua alienazione in capacità di giudizio. Durante l’elaborazione della sua esperienza traumatica il paziente deve decifrare gli affetti che lo turbano, la sua ansia catastrofica, la perdita di significato, la sua vergogna, l’alterazione del senso di appartenenza e d’identità, diventando capace di scoprire e di permettersi la sua opposizione e il suo rigetto, e riconoscersi il diritto di sfidare e delegittimare la violenza subita. A livello intrapsichico la tortura provoca nella vittima una regressione difensiva a uno “stato” di ambiguità (diminuzione della capacità di discriminazione, di conflitto interno e di scelta).  A livello intersoggettivo si ha un’alterazione delle relazioni umane, in particolare nella famiglia e nel contesto immediato della persona vittimizzata e introduce inevitabili malintesi tra le persone.  Nello spazio transoggettivo della soggettività si hanno emozioni e illusione condivise di fiducia (sicurezza) o di catastrofe (perdita di fiducia). I periodi di grande violenza politico-sociale, in cui i comuni contesti di sicurezza sono distrutti tramite terrore, propaganda, corruzione, sono sempre seguiti dalla corruzione del senso morale dell’intera comunità.

Accanto all’ “adattamento a qualunque cosa” e alla regressione ad aspetti arcaici del Sé come modalità difensive inconsce di sopravvivenza e di adattamento, presenti in ogni individuo, la Dottoressa Amati Sas ha individuato, in molti dei suoi pazienti, una preoccupazione verso un altro soggetto, da lei indicato come “oggetto da salvare”.  Ha scoperto che, durante il periodo traumatico della tortura, in alcuni pazienti vi è stata una resistenza soggettiva al maltrattamento e all’alienazione che si è manifestata attraverso un atteggiamento adulto di protezione e di profonda preoccupazione conscia o inconscia per una persona cara, un marito scomparso o morto, un bambino che è stato inevitabile lasciare.  Questo ha un importante valore terapeutico, rappresenta una difesa del sentimento d’identità del soggetto che consente la possibilità di ritrovare una continuità e una coerenza dell’immagine di sè stesso. Allo stesso modo, un importante segnale di recupero della soggettività è costituito dal riemergere nel paziente di sentimenti di vergogna, come recupero di capacità, da parte del soggetto, di affrontare i propri conflitti interni rispetto allo stato di adattamento, collusione, conformismo provocato dalle condizioni di violenza subita. Nel lavoro di psicoterapia, sicuramente molto doloroso, si potrà arrivare alla comprensione da parte del paziente di aspetti di sè stesso che, in condizioni abituali di vita non avrebbe avuto bisogno di conoscere, né di sospettare che esistessero.  E’ molto importante che il terapeuta abbia un vivo e costante “allarme etico” dinanzi ad una realtà abusiva inaccettabile. La dottoressa Sas dice che, in quanto psicoterapeuti, di fronte a queste situazioni di estrema violenza sociale non si prova nè odio nè desiderio di vendetta, ma si prova indignazione. L’indignazione è il sentimento che segnala che ci troviamo di fronte a una realtà abusiva non accettabile; nel sentirci indignati c’è necessariamente un impulso aggressivo che ci permette di separare i valori, di liberare il senso critico, la capacità di pensare, di scegliere e di esprimere un giudizio di condanna. Ovvero, sono presenti nell’indignazione, il desiderio e la capacità di scegliere i valori. Significa il disimpegnarsi delle difese accomodanti di fronte alla violenza. Più volte la dottoressa Sas sottolinea l’importanza dell’interdizione dell’incesto come prototipo di tutti gli abusi. Rinuncia a fare l’incesto come qualcosa che fa male ad un altro. L’indignazione come movimento di opposizione capace di liberare il senso critico e che può contrastare, controtransferalmente, l’emergere di una sorta di atteggiamento di rassegnazione, “desaliento”, rimanere senza respiro, scoramento, come perdita di fiducia nella possibilità di affrontare la sfida posta dalla complessità della funzione terapeutica di adattamento alla violenza sociale, nella quale sono tutti inclusi, compreso il terapeuta.

 Per questo, dice la dottoressa Sas, bisogna dotarsi di una “modesta onnipotenza” come connotazione positiva che consente di attribuirsi il particolare potere di credere in un’etica il cui paradigma potrebbe essere rappresentato proprio dall’oggetto da salvare; non è questa un’onnipotenza arrogante e prevaricatrice, ma afferma e riafferma una dimensione umana che caratterizza il riconoscimento di un limite, di una vulnerabilità che ha bisogno dell’esistenza di un gruppo, di un altro capace di fornirci riconoscimento e senso di appartenenza. Restare umano, non diventare disumano significa anche non abituarci alla connotazione ovvia della violenza attuale della nostra contemporaneità. La dottoressa Sas aggiunge che oggi, prendendo in considerazione i mezzi tecnologici sempre più efficaci che sono a disposizione dei poteri interessati a manipolare la tendenza umana all’adattamento, sarebbe pensabile che stiamo accettando gradualmente, come garante metasociale, una cultura di corruzione e trasgressione. Certamente, per lavorare come psicoterapeuti in questi contesti e tempi di grande incertezza servono una filosofia di rifiuto della fatalità, come dice Levinas, e un’etica della sfida.