Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano

Report del seminario “Donne: la resistenza delle donne afghane”, in data 05/10/21

Ospite: Laura Quagliuolo

Tematica tanto importante quanto attuale. Grazie al Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala, abbiamo avuto l’onore di ascoltare Laura Quagliuolo, una redattrice freelance di libri per la scuola primaria che ha fatto parte delle Donne in Nero, un movimento internazionale di donne che si batte per la pace; ha contribuito inoltre alla fondazione del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), una onlus italiana con sede a Milano nata nel 1999 per sostenere i progetti umanitari e politici e la resistenza contro il regime dei talebani di alcune associazioni e ONG come RAWA (Revolutionary association of women of Afghanistan) un’associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan basata su un’organizzazione socio-politica indipendente femminile con sede a Quetta, in Pakistan, fondata nel 1977; o HAWCA (Humanitarias association of women and children of Afghanistan) e dal 2014 lavora a sostegno della resistenza curda. In poco più di 90 minuti Laura ha raccontato quella che è la storia geopolitica degli ultimi 50 anni di questo travagliato Paese del Medioriente, degli interessi politico-economici di Paesi stranieri e soprattutto delle durissime condizioni socio-culturali in cui verte la popolazione civile, in particolare le donne.

 

Le parole di Laura suscitano sentimenti forti e contrastanti; si fa davvero fatica ad accettare nel 2021, nel pieno progresso della scienza e della tecnica, che ci siano Paesi in cui non vengono garantite le minime condizioni di sussistenza e i diritti umani sono così brutalmente calpestati, soprattutto per motivi religiosi.

 

Il CISDA ha aiutato in particolar modo RAWA. Il primo incontro avviene nel 1999, durante il regime dei talebani. In questo contesto le donne hanno bisogno di uscire dall’isolamento e, in quanto prive di appoggio, decidono di scrivere ad associazioni femministe per cercare visibilità e sostegno per raccontare la propria storia. Laura, dichiarandosi una “donna in nero” (gruppo pacifista internazionale), racconta di accogliere l’invito delle donne afghane, rimarcando il coraggio che hanno nel filmare atrocità e nel raccontarle.

 

Dopo queste parole ho immaginato la freddezza che le donne hanno dovuto dimostrare per non essere sospettate e probabilmente uccise. Le urla che provenivano dai loro occhi dovevano essere messe a tacere perché in ballo c’era la possibilità che qualcun altro, osservando la loro realtà, avrebbe potuto fare qualcosa. Sì, ci vuole molto coraggio.

 

RAWA ha da sempre condannato i fondamentalismi di tutte le specie, anche dei signori della guerra (tra il ‘92-‘96, dopo la caduta dell’impero sovietico, prendono il potere e fanno una guerra civile di quattro anni distruggendo completamente Kabul, per garantirsi più potere; gli Stati Uniti, la CIA e il Pakistan avevano pagato questi soggetti per cacciare i sovietici dall’Afghanistan, fra il ’79-‘89), che hanno tenuto il potere fino al 15 agosto ’21, e dell’ISIS khorasan. Dopo l’invasione sovietica c’è stata quella occidentale, molto pesante; ma a noi ci arrivavano ben pochi dati rispetto alle decine di attentati. E dove c’era la presenza dei talebani c’era la presenza delle lapidazioni delle donne adultere. L’Afghanistan, sostanzialmente, è in guerra da 40 anni.

 

L’idea che altri paesi non trovino “le risorse” per provare a fermare tutta questa violenza mi fa pensare. È un mondo più vasto di quello che riesco a rappresentarmi, pieno di complesse sfaccettature di ogni genere e natura. Ma davvero dopo gli avvenimenti storici, ancora non abbiamo sfruttato la nostra conoscenza per il benessere di ogni cittadino di mondo?

 

Laura ci racconta che per diffondere parole e notizie si servivano della rivista “la voce delle donne”, di stampo piccolo per poter essere nascosta nel burka. Le donne di RAWA, inoltre, hanno creato delle scuole di alfabetizzazione per donne dove, oltre a leggere e a scrivere, hanno imparato i loro diritti e a rivendicarli in famiglia e nella società; hanno condiviso i loro saperi di donna in donna; hanno organizzato orfanotrofi per bambini, soprattutto in Pakistan; hanno creato ambulatori medici sia mobili che fissi; si sono impegnate nella difesa delle donne oggetto di violenza.

 

Tutto ciò lo possiamo ricondurre al minimo comune denominatore dell’oscurantismo, termine che impazza sulle testate giornalistiche dall’agosto di quest’anno, ma è radicato in Afghanistan da ben 20 anni.

Nel marzo 2001, a pochi mesi dall’attentato terroristico delle torri gemelle, i talebani afghani distrussero con la dinamite le due statue di Buddha, nei pressi di Kabul, perché in base ad un decreto del regime talebano dell’epoca solo Allah poteva essere adorato. Questo è solo un esempio delle conseguenze dell’oscurantismo del regime talebano, un oscurantismo cupo, ottuso, mortifero, perché priva gli uomini della libertà, tra cui religiosa.
L’occupazione da parte dell’occidente in Afghanistan, durata 20 anni è costata molto, sia agli Stati Uniti che all’Italia, non solo in termini di denaro, ma soprattutto in vite di soldati che in Afghanistan si sono sacrificati per esportare la democrazia.
L’oscurantismo talebano, diretta e logica conseguenza dell’applicazione della legge coranica, ha provocato la distruzione della cultura in Afghanistan.

Dopo 20 anni di guerra nel tentativo di instaurare un minimo di democrazia, l’Afghanistan torna al punto di partenza. Una vicenda assurda, che provoca il porsi di numerose domande del tipo: cosa succederà ora? Che fine faranno le donne e tutti gli oppositori?
Kabul è in mano ai talebani e per gli Afghani inizierà un periodo nero, soprattutto quando l’attenzione dei media internazionali calerà. Già da ora arrivano notizie sconfortanti sulla caccia alle donne, soprattutto giornaliste, che non indossano gli abiti o non tengono comportamenti che l’Islam radicale impone.

 

È difficile immaginare il contesto afgano, messo in luce da Laura Quagliuolo, eppure il contrasto tra il ‘brulichio” di protesta e il silenzio imposto dai talebani arriva forte e chiaro, scuote anzi quella certa, occidentale, rassegnazione, quell’ “impotenza consumistica” alla quale rischiamo di assuefarci. Sentire da lontano l’eco di questa musicalità femminile (e non solo) di protesta, conoscerne in qualche modo il coraggio e coglierne un certo sottofondo di speranza, non può non farci sentire anche la nostra incapacità, o comunque difficoltà, di pensarci come comunità…

 

Nel 2001, Laura fa il primo viaggio in Pakistan, per vedere come le donne gestivano questi lavori di tutela e di istruzione. Questo impegno fu ammirato e dal 1999 la CISDA ha invitato le donne in Italia per raccontare la loro esperienza. Nel 2002 la CISDA ha fatto la prima delegazione in Afghanistan e da lì fino al 2019 hanno collaborato. Ogni anno invitavano donne afgane in Italia.

 

È davvero ammirevole la forza d’animo che queste donne hanno nello gestire situazioni di disagio e di violenza. Inoltre, la loro testimonianza diffusa in altri paesi può ottenere maggiore rilievo e vicinanza.

 

Interessante è la frase che Laura dice “il corpo delle donne viene usato come scusa, anche oggi” usato per il riferimento dell’azione dell’America contro l’Afghanistan. Mi ha dato modo di riflettere su come si usa la violenza per giustificare altri atti violenti.

 

“Per risolvere i problemi di un paese, si sceglie di aumentare il terrorismo.”

 

La paura è un’arma potente per persuadere e affermare il proprio potere su qualcuno.

 

“Non ho bisogno di pesce, ma di una canna da pesca”.

 

Mai parole furono più sagge. Il significato di questa frase può essere inserito in qualsiasi contesto problematico. Non ho bisogno solo di una soluzione, ma del processo che mi porta ad essa.

 

Il nuovo (ennesimo) Governo talebano si è insediato in brevissimo tempo dopo il ritiro delle truppe americane; Laura racconta ad esempio di come i talebani, che ricordiamo venire dal Pakistan, entravano nelle carceri, liberavano i prigionieri, li armavano e davano fuoco alle caserme. Sono state rispristinate vecchie pratiche di stampo islamico integralista, come ad esempio l’interruzione, per le donne, degli studi oltre le classi primarie, e una revisione dei programmi didattici a uso e consumo della “gloria talebana”, e le donne “da marito” vengono messe in lista; ma anche il divieto di praticare sport e l’impossibilità di circolare per strada senza essere accompagnati da un parente che fosse rigorosamente un uomo; e l’imposizione del burka. Dalla testimonianza di Laura emerge un quadro devastante: un Paese allo stremo, senza beni primari, senza infrastrutture, che non riesce a curarsi né a istruirsi: “più dell’80% delle donne afgane sono analfabete. Le donne lasciate nell’ignoranza sono preda di un patriarcato durissimo e violentissimo e non hanno modo di riscattarsi, perché non hanno nessun potere nella famiglia, devono solo lavorare e fare figli. Invece, le donne colte vengono viste come un pericolo.”

 

È un dato che mi ha sconvolto. Non credevo ci fosse una prevalenza simile di analfabetismo. Tuttavia, Laura spiega benissimo nelle frasi successive perché ciò avviene.

 

L’incubo è che tutte le conquiste sociali ottenute dalle donne negli ultimi anni possano svanire.

 

Un Paese dilaniato da guerre interne, interessi di Paesi esteri, che per i propri interessi lo hanno trasformato in un campo di battaglia.

 

Ma d’altro canto è sempre la solita storia: a farne le spese della guerra sono sempre gli innocenti, quelli che dovrebbero essere tutelati, quelli su cui costruire il futuro. George Orwell ce lo aveva descritto benissimo in “1984”: “La guerra è pace”; la situazione bellica in Afghanistan serve quindi a garantire certi equilibri economici internazionali, e a farne le spese ne sono sempre stati la popolazione locale e le centinaia di soldati caduti sul suolo afghano per difendere il proprio Paese. Anche l’Italia, purtroppo, ne piange molti. L’unica resistenza viene dalla gente, dalle donne, che per questo non vanno lasciate sole ma tutelate, aiutate, ciò di cui si occupa Laura e tanti altri insieme a lei.

 

Però la presenza dell’Occidente nelle città è stata utile; sono stati organizzati dei progetti per le ragazze. Un evento raccapricciante che si spera non accada è il riconoscimento del governo dei Talebani da parte di altri paesi.

 

La vocazione internazionalistica delle associazioni di donne sparse nel mondo stupisce, in qualche modo, disorienta ed emoziona il nostro angolo di mondo dai sogni corti… È sempre più difficile pensare al futuro nell’asfissia dell’individualismo, nel sopore del consumismo, eppure, testimonia Laura Quagliolo, esiste la possibilità di pensare a progetti condivisi, faticosi ma condivisi; forse, paradossalmente, questa possibilità si amplia proprio nelle situazioni più difficili: quelle che ci danno la misura del nostro bisogno degli altri.

 

In questo seminario si sono messe in risalto molte situazioni problematiche che fanno pensare a condizioni che dovrebbero essere ormai passate, ma che purtroppo oggi in realtà hanno molto di attuale. Si pensi che la condizione della donna in molti paesi è ancora molto sottovalutata per esempio il diritto di voto in Arabia Saudita delle donne è stato nel 2015 e che, sempre in quel paese è stata consentita la sua guida nel 2018.  In Afghanistan la situazione era migliore rispetto all’ Arabia Saudita prima dell’arrivo dei Talebani, ma comunque sempre precaria.

Con l’arrivo dei Talebani in Afghanistan c’è stata una rivoluzione della condizione delle donne e non solo. Ciò ha fatto pensare:

  1. alla forza e la combattività delle donne, e al parallelismo su come nel 68’ le donne Italiane si sono messe in moto per cercare di ottenere quelli che sono i loro diritti, attuando una ribellione culturale, politica, artistica e tradizionale. La condizione era differenza, ma la forza, la motivazione ed il desiderio di valere sono le stesse, e ci si spera che questa rivoluzione prenda sempre più piede per migliore lo status delle donne.
  2. Alla condizione della guerra, a come i propri interessi economici hanno prevalso su tutto il resto e a come dice un proverbio africano. Andando a danneggiare i civili, ma anche tutto il paese. Questo ha fatto pensare a come invece di combattere si potrebbe impiegare più tempo a trovare il modo di appacificare le cose e come in realtà questo potrebbe fruttare anche molto di più, come affermato nel libro “L’arte della pace” di L’ Abate, che smonta, punto per punto, il libro del generale cinese Sun tzu “L’arte della guerra”. In quest’ ultimo libro vengono elencate alcune strategie per riuscire a vincere nel migliore dei modi una guerra. Nel “l’arte della pace”, L’Abate, che ha fatto molti anni il Volontario di Pace nel medio Oriente, utilizza a volta le stesse frasi ma per arrivare a quella che è la pace fra i popoli, e su come ciò farebbe anche bene a livello economico.

Per le donne afgane illuminate che incontriamo, come Antigoni velate, attraverso le parole di Laura Quagliuolo, il quotidiano è attraversato da una vitale, dolente trasgressione… Per noi, nel nostro contesto socio-politico, cosa potrebbe significare “trasgredire”… ? La difficoltà incontrata nel rispondere a questa domanda la dice lunga… come se “tutto e il contrario di tutto” si incontrassero e neutralizzassero in un supermercato di nonsenso. Vorremmo poter rispondere un giorno, magari col nostro lavoro…

Il silenzio brusco e forzato di una casa vuota di musica in cui cresce una ragazza dodicenne (figlia di una donna di RAWA) è una stonatura che ci chiede anche di accordare la nostra umanità…

 

Report a cura di

Davide Magistro

Fabiola Merlino

Liliana Chiarini

Maria Rosa Irrera

Vanessa Capria

 

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