Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano

Questo breve scritto nasce dopo la lettura del libro “L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nel Lager ed altri scritti” di Viktror E. Frankl, in occasione di una Giornata della Memoria organizzata da docenti di Filosofia del Liceo La Farina in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina.
Mi é stato chiesto di poter dialogare con i ragazzi sui temi trattati nel testo che hanno letto in un progetto di lettura scolastico. 
Riporto integralmente il mio intervento.

Giornata della Memoria  26.01.2024 presso l’Aula Magna dell’Università degli Studi di Messina 

L’uomo in cerca di senso
di Viktor E. Frankl

Calati juncu ca passa la china

Ho pensato di intitolare questo mio breve intervento con un antico proverbio siciliano “calati juncu ca passa la china” -piegati giuncò che passa la piena (del fiume)- il cui significato è: accetta di malgrado o di buon grado una situazione a cui non ti puoi opporre.
Questa espressione credo che sia la migliore per spiegare tutta l’essenza del libro che non conoscevo e che ho avuto il piacere di leggere.
Piacere inframmezzato alla commozione, allo sbigottimento, per tutto quello che con estrema e difficile  leggerezza è stato raccontato.
Anni fa, ma tanti anni fa, quando anche io ero una studentessa liceale, venne organizzata al Teatro Vittorio Emanuela una giornata commemorativa come quella di oggi.
Tra i relatori c’era una Signore anziano, o almeno a me sembrava così, anche lui un sopravvissuto ai Lager. Raccontò la sua storia.
La raccontò con tono pacato, con parole precise, riusciva a tenere l’attenzione rapita su di lui…mentre raccontava in questo clima così tranquillo, da un momento all’altro il suo timbro di voce cambiò: la sala del teatro fu invasa da un urlo incomprensibile, era in tedesco.
Mi sentì ghiacciare.
Ecco lo ricordo ancora. Quel terrore che per me fu solo un attimo, per lui, per loro, era ripetuto come diremmo noi: per ore, quarti e minuti…era infinito.
Da qui le mie domande fatte allora e riproposte oggi: ma se a me che poi ho trascorso la giornata con le amiche, questo urlo è risuonato così vivo ed ancora me ne ricordo l’intensità, coloro che la vivevano in prima persona, cosa devono avere provato? Cosa hanno custodito negli anni?

Questo ricordo mi è stato sollecitato da un passaggio che è riportato nel libro ed in cui viene fatto riferimento all’urlo di richiamo che le SS usavano nei confronti dei prigionieri, che venivano anche svegliati dal loro sonno e dovevano abbandonare quei sogni “traditori” che raccontavano della vita di prima. I sogni illudono.
Ciò che per prima cosa la mente del prigioniero affronta sono proprio le illusioni; all’inizio sono necessarie, il “delirio di grazia” così come fu chiamato, poteva anche se per poco aiutare i prigionieri ad “acclimatarsi” a quella che sarebbe stata la loro sorte. L’illusione di prigionieri anziani dall’aspetto florido deputati all’accoglienza, la gentilezza dei soldati perché volevano appropriarsi di ciò che appartiene ai nuovi giunti, l’illusione che tu prigioniero verrai liberato, che a te non verrà effettuato il trattamento di quello che ti cammina accanto…e che tu non lo sai, ma sta pensando la stessa tua identica cosa ma su di te…
Racconta che gli stati in cui si avvicenda il prigioniero sono lo choc, l’apatia ed infine la morte psichica; c’è la nostalgia per ciò che non c’è ma che c’era e poi il disgusto per quello che c’è e che si vede intorno e che non credo siano solo le immagini che già solo quelle sono terrorizzanti, ma soprattutto pensare che chi sta organizzando tutto questo, chi ti sta infliggendo tutto questo, chi ne è autore e protagonista è un uomo come te.
Durante la lettura le immagini ed i suoni raccontati e descritti sembrano reali.
L’urlo, come le immagini prendono sempre più un carattere imperativo. Questi uomini -in senso generale- vedevano i loro corpi riflessi nei corpi degli altri, come in uno specchio. Vedevano corpi morti ammassati, vedevano copri denudati e da loro stessi deprivati di una scarpa sana o di una giacca meno consunta o di un tozzo di pane o di una sigaretta.
Venivano sempre più privati della loro corporeità, ma non potevano essere privati dell’intensità della percezione sensoriale. Le urla erano urla anche quando non erano necessarie, ma le parole che tra loro si dicevano se le scambiavano “con calma, con toni rassicuranti”; le immagini erano alle volte illusioni/allucinazioni belle, confortanti o terrifiche.
E cosa succede al corpo? Quale enorme mortificazione subisce? Non esiste più l’idea di un corpo sessuato, esiste un corpo che viene offeso, che viene maltrattato, che diventa cibo per i pidocchi, che diventa nucleo di malattie. Non si mangia, non si beve, non ci si riposa, non si può nemmeno più soddisfare i bisogni primari. 


Tante le descrizioni che lasciano trapelare come si facesse riferimento ai sensi: “toccavo teneramente il pane che avevo nella tasca aspettando di poterlo mangiare dopo” immaginando la piacevolezza del sapore.
Penso ad uno scambio tra l’autore ed una donna prigioniera, di cui lui si prendeva cura come medico. La giovane donna sapeva che da lì a poco sarebbe morta  e lui decise di parlarle e si stupì a trovarla “serena”: “sono grata al mio destino, per avermi colpita così duramente, perché nella mia vita di prima quella borghese, ero troppo viziata e non avevo nessuna ambizione spirituale; questo albero è mio amico nei momenti di solitudine, parlo spesso”. La meraviglia dell’autore fu quando alla domanda se l’albero rispondesse, la donna rispose: “si mi risponde e mi dice: io sono qui, io sono la vita, la vita eterna”.
Il guardare da sola ed in segreto l’albero, prima di abbandonarsi a morte certa, consolava la donna, la aiutava a poter pensare al fuori e ad una vita che comunque c’era, quella stessa vita che però decideva liberamente di abbandonare.


È semplice pensare di poter impazzire. Ed ecco che il nostro amico sopravvissuto, ci invita a pensare insieme che in qualche modo si può scegliere di morire ma si può anche scegliere di vivere. Certo un po’ difficile da crederci. In quanto psichiatra e psicoterapeuta, forse ha avuto qualche possibilità in più per poter mantenere la sua mente in quel qualcos’altro che gli ha permesso di non cedere, di non cadere nell’idea che l‘unica liberazione fosse la morte ma che la vera liberazione fosse la scelta.
Se non si muore realmente, si indossano i panni del morto. Anche questo, cosa deve rimandare a chi resta vivo? Che in qualche modo sei morto anche tu? Un po’ come quando da bambini si mettono le giacche del papà e le scarpe della mamma pensando in qualche modo di essere loro…ecco indossare le scarpe o le giacche di coloro che sono morti per le innumerevoli sofferenze è come se in qualche modo ci si lasciasse confondere in quello stesso corpo che ha lasciato “la sua pelle”?
Ma quale oggetto interno offre la possibilità della salvezza? Ma forse la nostalgia di chi c’è fuori, potrebbe essere quell’oggetto buono di cui si è fatta esperienza nei primi momenti della vita? O anche solo il pensiero che potrebbe esserci qualcuno fuori che attende la liberazione del prigioniero, può essere la rappresentazione di questo oggetto che tiene in vita?
L’autore parla di INSENSIBILITÀ come unica possibilità di poter non soccombere alla violenza che viene inferta quotidianamente; la definisce così: “è una corazza necessaria nella quale l’animo umano del prigioniero si rifugia ben presto”, chissà forse per affrontare quella “rabbia per l’ingiustizia subita e per l’infondatezza della pena” ed ancora “più delle percosse fa male lo scherno; e che un uomo che non sapeva nulla di me potesse giudicarmi”
L’essere un medico avrebbe potuto giovare, come ha giovato al nostro ormai amico sopravvissuto, perché non solo é riuscito a salvare se stesso pensando e forse richiamando a sè, alla sua memoria, tutte le buone relazioni di cui ha fatto esperienza, ma anche perché è riuscito a fare questo per altri compagni e per dei superiori ottenendo dei benefici: essere in una determinata posizione della fila, ottenere un poco più di pane, essere mandato a svolgere la sua professione di medico, non essere mandato in alcuni campi di lavoro.
La vita dei prigionieri è ridotta ad un livello primitivo, data la costrizione spirituale nella quale si trova e alla necessità di conservare la propria esistenza.
Cosa resta loro se non ripiegarsi sul passato come via di fuga dal vuoto desolante, ripercorrere quei normali gesti della normale vita quotidiana, ripercorrerli uno dopo l’altro permettendosi così di difendersi dalla povertà reale e spirituale?
L’Io viene svalorizzato, da un ambiente che ignora i valori della vita umana e della dignità della persona “l’uomo in un campo dì concentramento a meno che la sua autocoscienza opponga un’ultima impennata, perde la sensazione di essere ancora un soggetto e tanto meno un essere spirituale con libertà intenta e valore personale.
L’uomo nel Lager regredisce, i sogni dei prigionieri diventano occupati dal pensiero dei beni primari: il bisogno del cibo e dell’igiene personale. Il sogno diventa la descrizione di un desiderio che a mio parere si confonde nel vero ed unico bisogno: la sopravvivenza che si declina attraverso la necessità di soddisfare il bisogno primario; come il bambino allucina il seno materno, le braccia calde, così il prigioniero sogna il cibo ed il bagno caldo. Potremmo pensare che ci si consola dentro le esperienze primarie.
Racconta come alle volte restava a guardare il cielo stellato dalle feritoie della sua baracca, o riuscì a guardare attraverso un filo spinati i campi verdeggianti in fiore il cielo azzurro e così  Sognavo i sogni della mia nostalgia”.
La letteratura psicoanalitica si è occupata dei torturati e dei torturatori.
Bleger fu il primo ad ipotizzare che l’ambiguità -nucleo ambiguo- presente, viene depositato nell’ambiente esterno con un legame detto simbiotico; l’aver proiettato questo nucleo ambiguo all’esterno la realtà diventa familiare e conosciuta e rassicurante ed è per questa malleabilita che l’uomo si adatta a qualsiasi cosa
Per rendere questo concetto più concreto: pensiamo ai Kapot, che altro non erano che  prigionieri che per loro doti di cattiveria, lo possiamo dire, potevano svolgere quei ruoli così barbari. Nella stessa condizione dei compagni di prigionia, godevano di benefici che permettevano loro di agire l’aggressività subita. Quindi, loro è come se prendessero la sofferenza subita la rendessero propria, la proiettassero all’esterno creando un legame simbiotico, riconoscendo così l’esterno come familiare per poi diventare un tutt’uno non solo con l’ambiente quanto con l’aggressività dell’aggressore. Silvia Amati Sas altra psicoanalista che ha proseguito il lavoro di Bleger, afferma che in particolare nelle condizioni di tortura o di prigionia, si viene a creare una relazione tra il DEPOSITATO, il DEPOSITARIO ed il  DEPOSITANTE .
Il depositario è un oggetto o un luogo esterno, è il deportato che subisce l’aggressività del depositante ovvero del Kapo ed il depositato è ciò che di feroce quest’ultimo lascia nell’ambiente esterno ma anche nel depositario/deportato.
Sempre secondo la Amati Sas, le tecniche di tortura alle quali sono sottoposti i prigionieri, sono un sistema ben articolato che distrugge tutto ciò un cui la vittima crede, la spoglia della relazione con se stesso con i suoi ideali e con la sua memoria. Il torturatore stabilisce un relazione asimmetrica nella quale vige solo il potere sulla vittima che viene privato della capacità di pensare di decidere. Si arriva a rimodellare il fondamento del funzionamento di ogni singolo uomo così anche da annientare ciò che di creativo è nell’Io.
Ed il prigioniero depositario cosa farà di ciò che gli è stato depositato? Mi sono domandata, forse è questa la libertà a cui fa riferimento l’autore quando descrive le diverse reazioni che sono state adottate dai tanti compagni. Chi si lasciava morire, ed era una decisione che quando veniva raggiunta non era rinegoziabile, chi si allineava all’aggressività pensando che così sarebbe sopravvissuto, chi pensava e si teneva stretto al ricordo ed al desiderio (incontrare una persona che lo attende, desiderare di riabbracciare il figlio, continuare a scrivere il proprio libro che aveva nascosto). Ma il prigioniero desidera che sia il destino a provvedere a lui, che non si debba impegnare a decidere se restare in vita o se andare alla morte.
Chi resisteva a questa barbarie? Solo chi era pienamente consapevole di avere una responsabilità all’esterno, solo chi poteva tenere fermo nella mente il passato, che è qualcosa che nessuno può sottrarre, nemmeno in una condizione come quella vissuta dai deportati. Il “passato è eternita” dice l’autore, il passato serve per sopportare il presente e pensare al futuro. Bisogna difendersi dalla spersonalizzazione che è quello che viene sperimentato dagli internati: “tutto appare irreale, inverosimile, pare un sogno, ma non ci si può credere” che sia reale.
Cosa succede quando si torna liberi? Quando si raggiunge la tanto agognata libertà? Quando il sogno diventa realtà? Accade che non ci si crede, che non si gioisce più perché non si sa più gioire, succede che la psiche resta dov’era ed invece il corpo “tradisce la mente” e inizia a chiedere cibo, acqua, riposo quello vero. L’ex prigioniero beve il caffè e sarà “in caffè veritas” perché inizia a parlare, a raccontare, ha bisogno di farlo si accorge che è un gesto violento con se stesso, ma non può farne a meno.
Da qualsiasi lato la guardiamo, emerge solo violenza.
Molti ex prigionieri decidono di ri-usare loro stessi la violenza subita, la vivono come rivalsa, come possibilità di sentirsi potenti contro l’ingiustizia, un po’ -a mio parere- si ripropone il circolo del “Depositatio-depositante-depositato”, quando anche il depositario è semplicemente un “campo di grano di fresca semina”; cito: “occorre molta pazienza perché questi uomini ritrovino la verità del resto quasi banale che nessuno ha diritto di commettere un’ingiustizia, neppure chi ha subito un’ingiustizia”. Tornano a casa e alle volte constatano che non gli viene concesso l’interesse e la cura che si aspettavano, ma solo “scrollate di spalle e luoghi comuni”.
Il nostro amico sopravvissuto, usa la logoterapia -da logos:significato-, cioè un metodo che rispetto alla psicoanalisi è “meno retrospettivo e meno introspettivo”, si concentra sui significati dell’esistenza umana e sulla ricerca di tale significato, si concentra sul futuro inteso come senso che il paziente dà al futuro, lo sforzo che il paziente fa a trovare un significato alla sua vita, è essa stessa motivazione all’andare avanti. Uno dei temi affrontati è la differenza tra il senso della vita ovvero il realizzare qualcosa di creativo ed il senso dell’esistenza inteso come qualcosa che già di per sè include la morte e che pertanto al senso della vita deve coniugare il senso della morte e della sofferenza: “per questo senso abbiamo lottato!”. Lèggiamo come i prigionieri avevano in qualche modo abdicato anche alla negazione della sofferenza, ma che invece questa era diventata un compito da vivere, dal quale non volevano e potevano sottrarsi. È quello che lui definirà come il “coraggio di soffrire”, la possibilità di piangere. 


Il cercare la “volontà di significato” cioè il cercare il significato della vita, è diverso per ognuno degli esseri umani e può essere raggiunto. Così afferma “nella logoterapia il paziente si confronta veramente con il significato della sua vita e viene reindirizzato in tale direzione; renderlo consapevole di questo significato può aiutarlo”. L’uomo può essere aiutato a “smascherare” il valore della sua vita, il desiderio di come vivere. Se viene frustrata la volontà di significato allora insorge quella che chiamerà “nevrosi noogena”. Ritiene che vi sono conflitti normali e salutari, che soffrire può essere un passaggio soprattutto se la sofferenza nasce dalla frustrazione esistenziale e che è una preoccupazione esistenziale. La logoterapia -afferma- differisce dalla psicoanalisi “in quanto considera l’uomo un essere il cui principale interesse consiste nel raggiungere un significato, piuttosto che nella mera gratificazione e soddisfazione di impulsi es istinti o nella mera riconciliazione del conflitto tra Io-Es e SuperIo o nel semplice adattarsi ed adeguarsi alla società ed all’ambiente”. Parte dal presupposto che la ricerca del significato, non sempre porta all’equilibrio interno ma che possa essere causa di tensioni interne e che questa stessa tensione poi possa essere essa stessa quella che spinge al portare a termine un compito. È la tensione tra ciò che si è portato a termine e è ciò che è ancora sospeso, che tiene vivo l’uomo, che a sua volta non deve chiedersi solo quale sia il significato della sua vita ma chiedersi cosa la vita stia a lui chiedendo.
Al termine della lettura, ho pensato a quanta elaborazione dei vissuti debba aver fatto l’autore per arrivare a spiegare ed a raccontare tutto in questo modo. Quanta elaborazione debba essere stata necessaria per poi elaborare una teoria psicoterapeutica.
Mi sono chiesta: possiamo pensare alla resilienza come difesa dal proprio odio? Forse l’uomo che liberato dal campo di concentramento, ha calpestato il campo di grano, non è stato resiliente perché ha agito il suo odio o lo è stato solo nel periodo di prigionia? La resilienza ha un tempo o è eterna?
Mi piace pensare alla resilienza e ad un uomo che usa la resilienza, come a quel giuncò che pur di non essere travolto dalla piena del fiume, riesce a piegarsi per far sì che il fiume in piena scorra ma non lo spezzi, non lo travolga.
Credo che questi uomini o almeno quelli sopravvissuti, è questo l’uso che hanno fatto della resilienza, hanno compreso che solo così avrebbero potuto sopravvivere, e che la spinta attraverso i racconti a rendere il passato futuro, possa essere stata la possibilità di restare vivi.

 

Roberta Cardia