Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano

Pensando al maschile e femminile e altre “porcherie”

«Non cercare risposte ora: nessuno te le potrà dare, perché non sei in grado di viverle. Di questo infatti si tratta: di vivere ogni cosa. Adesso vivi i problemi; vivendo i problemi, forse un lontano domani, a poco a poco, senza accorgertene, scoprirai le risposte». (R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta)

Pensare al maschile e femminile significa rapportarsi con l’antinomia più antica e vitale di natura e cultura, significa scoprirne i riverberi inaspettati, le imprevedibili declinazioni post-moderne. Il nuovo e l’antico tendono a fondersi quando si attinge profondamente all’umano: il mito poliforme ci accompagna, infatti, ancora una volta, nella nostra riflessione.

Cosa è che coniuga il maschile e il femminile? È possibile viverli entrambi? Oppure è necessario vivere un lutto per possedere l’uno e lasciare andare l’altro? E se si rifiuta questo lutto? C’è il dolore? C’è la negazione? C’è un meccanismo di difesa? C’è il rifiuto? C’è la follia? C’è la malattia? C’è il disturbo mentale?

Il mito fonda le nostre radici, ci definisce. Ma, della civiltà greca, abbiamo lasciti che riguardano ovviamente, imprescindibilmente, scienza odierna e filosofia. Eppure mito e civiltà, scienza e dei, esplodono in idee che possono apparire come inconciliabili.

Il Super Io potrebbe essere la rigorosità scientifica, il mito lo sfogo delle pulsioni appartenenti all’Es, che possono essere grandiose, e l’Ellade diventa un Io che gioca con queste due forze, potente abbastanza da contenerle e rendersi generatrice.

Generatrice di cultura, di dibattito.

E il dibattito di sabato 19 novembre 2022 si è concentrato sul Maschile e sul Femminile. Un Maschile e un Femminile che la rigorosità medica definisce come biologicamente determinati. Ma la psicanalisi non si ferma alla medicina classica e nell’influsso della filosofia, della storia e del mito, scava fino alle radici del nostro mondo interno, ed è qui che la protagonista del discorso diventa colei che genera la vita: Leto.

Madre di Apollo e Artemide, fecondata (stuprata) da Zeus, maledetta da Era, vaga alla ricerca di un luogo dove poter mettere al mondo i suoi gemelli. E questo luogo sarà la splendida Asteria, isola vagante, a suo tempo bellissima ninfa e maledetta, a causa del rifiuto di concedersi (farsi stuprare) a Zeus, trasformata in un luogo destinato all’eterno vagare.

Ed è lì che Leto può svincolarsi dalla sua maledizione, partorire, ed è sempre lì che Asteria si trasforma in Delo, isola generatrice di vita. Colei che si è rifiutata di giacere (…) col padre degli dei, si fa spazio d’amore in cui è possibile mettere al mondo una nuova vita: inevitabilmente diventa Terra, Grembo, di due divinità.

È questo il mito che ci viene proposto per spiegare la figura di un femminile descritto da una visione appartenente a un maschile spaventato e sprezzante, rivale e violento, da cui rifuggire. Mentre il femminile è fecondo, è generativo, è dedito a un unico ruolo.

Scissi il maschile e il femminile non si ritrovano mai.

E la nostra società?

La nostra società non è così, i ragazzi di oggi non sono più così: o uomini o donne. Vi è un’accettazione nel non appartenere a un genere: non-binary.

Trasformazioni (più o meno concrete e/o simboliche) animano spesso miti e fiabe, come suggestivamente evoca l’intervento della dottoressa La Torre, e attorno al fulcro di una “trasformazione”, possibile e problematica, ruota anche il processo analitico, per non dire la vita stessa. La poesia e l’arte in generale è un grembo particolarmente pronto ad accogliere e ricreare contraddizioni e metamorfosi, farsi carico di un “caos” di volta in volta componibile in “cosmo”, e di un “ordine” che può avere a sua volta bisogno di contattare il suo cuore magmatico: “apollineo” e “dionisiaco” fanno sovente capolino nelle vicende umane in generale, e cliniche in particolare: agli estremi di entrambi i poli si annidano forme, opposte e complementari, di sofferenza psicologica.

Il Mito è vivo, il Mito è tanto ampio che, se qualcosa spiega un argomento, qualcos’altro può confutare il medesimo argomento. E in questo caso c’è subito la confutazione. C’è lei, Artemide.

L’isola vagante Asteria è espressione di un femminile temuto dal maschile perché privo di radici, come una donna che rifiuta il matrimonio e il radicamento-controllo sociale ad esso legato; l’isola parla di un femminile solitario, oscuro, ignoto (di una “sporca” libertà?) … e l’ignoto fa precipitare in paure primordiali (dalle quali ci si difende sovente col giudizio e col disprezzo). Artemide, invece, non perde queste caratteristiche. Accomunata a Selene e a Ecate, in Artemide c’è il fascino dell’ignoto, un ignoto che però non è maledetto. A lei vengono dedicati Templi, a lei vengono fatti sacrifici, la Grecia è pregna di città a lei dedite. Non è una dea che genera paura, come può esserlo Zeus Ctonio.

Artemide è fatta di scelte.

La sua prima scelta è quella di aiutare immediatamente la madre, Leto, a partorire suo fratello gemello, Apollo. Nella sua sfera divina, Artemide è colei che si limita ad aiutare le partorienti solo in questo singolo attimo. Scompare in modo assoluto nelle restanti parti della gravidanza perché non le competono, lei non le sceglie, ne prende le distanze. È una dea vergine che rifiuta il matrimonio, l’idea di avere figli, e si ritira nei boschi, con il permesso e la benedizione di suo padre, Zeus.

Dea della caccia, l’Orsa è il suo animale sacro e infatti a lei è dedicato un rito di passaggio per le giovani Ateniesi, quello delle Orsette, durante il quale le bambine, indossando una pelle d’orso, finiscono di essere bimbe, finiscono di essere libere, selvagge, come Artemide, e, arrivando alla loro seconda parte della giovinezza, vale a dire quella nella quale è possibile procreare, diventano possibili madri, allontanandosi da lei.

Cosa rappresenta questa tradizione?

L’abbandono del maschile?

L’abbraccio del proprio corpo ora in grado di procreare?

Ed è un po’ questo il punto: Artemide non rinuncia al maschile, non compie il lutto, non sceglie.  E non ha il bisogno di farlo perché la società non la lega a nulla. Lei non vive dentro il confine della sua polis, lei caccia come un uomo, e viaggia, come un uomo, seguita dalle ragazze che lei sceglie per sé. Ma rimane donna. Una donna che, al contrario di Leto e Asteria, non è maledetta.

Le bambine che stanno diventando invece membri della società, che diventano cittadine (si ricordi quanto la cittadinanza ad Atene fosse essenziale), devono avere il ruolo di madri e questo sottende alla rinuncia del maschile presente in loro.

Forse in questa generazione c’è il rifiuto a rifugiarsi nei boschi.

Forse, adesso, si vuole avere sia il maschile che il femminile all’interno della città, mantenendo il diritto a essere cittadini, senza dover necessariamente affrontare il lutto.

Anche i Porci con le ali (passi del libro sono stati proposti e rivitalizzati dall’intervento della dott. Lisciotto e dalle voci di due giovani tirocinanti) possono essere visti come moderne “creature mitologiche”, sorte dai travagli e i sogni degli anni Settanta, intente a mangiare (e produrre) i problematici frutti della rivoluzione sessuale e culturale.

Erano forse, di nuovo, le ali di Icaro? Dopo decenni di “volo”, siamo investiti dalla “scioglievolezza” dei confini identitari (anche di genere), dalla questione di un “limite” che si sposta indefinitamente e di orizzonti d’esistenza che non si vedono: in fondo, poi, anche l’orizzonte è un limite che sprona il desiderio, un irraggiungibile che mobilita, un’azzurra porcheria. Ci interroghiamo sulla possibile dimensione compulsiva di alcune transizioni, come di alcuni interventi di chirurgia estetica, dove non si intravede un limite-orizzonte, che, al di là di ciò che “aggiungono” o “tolgono” nel corpo, dotano il soggetto di uno scomodissimo potere, di una labile onnipotenza a doppio taglio pronta, forse, a sconfinare nel nulla mortifero.

Non a caso la nostra società ha un forte tratto nichilista (il nichilismo è L’ospite inquietante di Galimberti), come se una vita senza limiti si apparentasse intimamente con la morte, magari negata in modo maniacale dalla “chirurgia” che il consumo impone al desiderio.

Icaro muore, vittima di una sfolgorante illusione; noi abbiamo la responsabilità, il problematico privilegio, di ascoltare le inedite difficoltà identitarie degli adolescenti (e delle persone in genere), al di là dei grugniti ideologici.

L’umiltà matura con cui alcuni dottori si sono accostati alle questioni smosse durante l’incontro non suona solo stimolante intellettualmente, ma anche, a un livello più intimo e misterioso (potremmo dire transferale), “commovente”… un immenso non sapere, scintilla accesa tra poesia e clinica.

 

Mirella La Rosa, Maria Rosa Irrera