Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
Sabato 20 Marzo 2021 il Laboratorio Vicolo Cicala ha dato la possibilità di seguire il seminario “Dialoghi fra Psicoanalisi e Neuroscienze”, durante il quale sono stati ampiamente illustrati gran parte di studi e contributi di ricerca su questo argomento molto dibattuto. L’argomento “Psicoanalisi e Neuroscienze” ha suscitato sempre un grande interessante all’interno del mondo psicoterapeutico, in quanto lo stesso oggetto viene visto da due facce differenti. Da tempo gli studi tra psicoanalisi e neuroscienze cercano di confluire, seppur seguendo strade diverse, agli stessi obbiettivi, e le varie riflessioni sono state illuminanti, determinando quasi una svolta nell’ambito del dialogo tra queste due discipline. Apparentemente l’approccio psicoanalitico e l’approccio che verte nelle neuroscienze sembrano essere due modalità di approccio terapeutico opposte. Se da un lato, questa affermazione può essere in parte vera, poiché questi due approcci si occupano di filoni di studi ben distinti, dall’altra parte è fondamentale tenere in considerazione entrambi gli approcci poiché uno completa l’altro.
Lo stesso Freud aveva già mostrato interesse sulla relazione che intercorre tra le due tematiche, partendo da osservazioni cliniche fece una scoperta fondamentale, supponendo che esiste qualcosa che il soggetto in coscienza non pensa e che avviene dunque al di fuori della sua coscienza. Tale scoperta fu seguita da un “perché” neurologico, successivamente abbandonato poiché non riuscì ad indagare come il cervello lavorasse e producesse questa “mente non cosciente” e pertanto si concentrò sul “come” (come mai c’è questo qualcosa che lavora al di là della coscienza dell’individuo), ipotizzando così “la teoria energetico-pulsionale” incentrataproprio sui concetti di pulsione e di rimozione. Grazie al contributo delle neuroscienze, tale teoria fu poi abbondonata pur non rinnegando i meriti delle intuizioni freudiane. Ciò evidenzia, quindi l’importanza del dialogo e della collaborazione che psicoanalisi e neuroscienze devono avere. Anche Gallese, neuroscienziato e docente di Psicologia, ha utilizzato una metafora per descrivere il lavoro “opposto ma complementare” delle due discipline: neuroscienziati e psicoanalisti esplorano la stessa montagna, partendo da lati diversi per poi incontrarsi e confluire nel cuore di essa; luogo in cui avviene poi uno scambio di scoperte reciproche. Dunque, non si tratta solo di un dialogo possibile, ma di un dialogo necessario per la comprensione della complessità delle dinamiche relazionali.
Uno dei principali temi incentrati sul rapporto tra psicoanalisi e neuroscienze è sicuramente il rapporto mente- cervello. Ruth Feldman, neuroscienziata, definisce “cervello affiliativo” l’insieme di network e strutture cerebrali interconnesse che sottendono la capacità dell’essere umano di costruire relazioni affettive. Di fatti, parlando di cervello affiliativo è impossibile non fare riferimento a una delle caratteristiche più importanti, ovvero il concetto di plasticità, che conferisce resilienza in vari modi: mediante l’attivazione ottimale della rete che lo costituisce consente agli individui di formare e mantenere legami sociali per tutta la vita; di gestire lo stress mediante le relazioni e, attraverso il crosstalk di ossitocina e DA (dopamina). È possibile annoverare da qui come lo scambio e il contributo di questi approcci (psicoanalisi e neuroscienze) facilita la comprensione della costituzione dei legami relazionali e di come questi siano la base per far fronte ad eventi negativi che potrebbero presentarsi nella vita dell’individuo. Infatti, negli ultimi anni, sono stati effettuati studi su modelli animali improntati sulle neuroscienze che hanno contribuito alla comprensione del legame affiliativo tra due persone. La prospettiva neuroscientifica parte dall’assunto che la relazione affettiva è alla base della strutturazione della mente umana. Tale legame è da considerare e studiare nella prospettiva evolutiva: empatia, simulazione, mentalizzazione e regolazione delle emozioni formano una rete globale che supporta proprio gli attaccamenti.
Le relazioni che si instaurano già dalla nascita influenzano quelle future e lo sviluppo psichico. A tal proposito, è stato condotto un interessante studio sul sistema dell’ossitocina che è fortemente plasmato dalla relazione madre-bambino. L’aspetto relazionale con il caregiver, oltre ad influenzare le relazioni future, è anche intrinseco al nostro funzionamento neurobiologico.
Lo studio è stato condotto su tre coorti longitudinali e ha dimostrato il rischio psicopatologico per il bambino in assenza di contatto con il corpo materno subito dopo la nascita. In particolare, in caso di depressione post- partum della madre o di nascita prematura, casi in cui il contatto si riduce notevolmente, il bambino ha maggiore rischio di sviluppare malattie mentali e organiche, non a caso si parla di “Kangaroo-care”, chiamata
anche “contatto pelle a pelle”, una tecnica in cui i bambini vengono tenuti a stretto contatto con il petto della madre. Inoltre, è stato evidenziato che bambini esposti a traumi precoci, si ammalano di più in adolescenza rispetto a quelli che hanno avuto madri maggiormente capaci di sincronizzazione.
Quando parliamo di sincronizzazione, facciamo riferimento alla sincronia bio-comportamentale, che avviene quando il comportamento del genitore/figura di accudimento regola quello del bambino, una “danza” fatta di comportamenti non verbali associati con una risposta fisiologica coordinata tra i partner, che varia a seconda dell’età e del tipo di legame.
La sincronizzazione ha una sua evoluzione, aumenta in termini di complessità, pur mantenendo le stesse caratteristiche, rimanendo stabile fino ai 25 anni, grazie all’azione del cervello affiliativo estremamente plastico grazie all’implicazione dell’ossitocina.
Durante i primi 25 anni di vita, infatti, essa mantiene sempre gli stessi schemi ritmici non verbali che saranno la base per la resilienza, dunque, le disposizioni biologiche e sociali del legame madre-bambino forniscono resilienza per tutta la vita. La sincronizzazione nelle relazioni non avviene sempre, sembra che le madri si sincronizzano con il bambino solo per il 30% delle volte, attraverso il contatto fisico che stimola la produzione di ossitocina accumulata nei neuroni, la quale viene rilasciata nel momento in cui la mamma stimola il bambino con un processo quasi ritmico che ricorda quello del battito cardiaco; per la restante percentuale, si attiva un processo di reward system, il sistema di ricompensa che, associato alla produzione di dopamina, è responsabile del ricordo delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale. Questa sincronizzazione comportamentale, cardiaca, endocrina, cerebrale ha varie fasi:
– Preparazione della sincronia (periodo prenatale) che inizia nella vita intrauterina a 31 settimane, con il ritmo sonno-veglia ed a 33 settimane con i ritmi cardiaci, quindi si riferisce alla crescente familiarità della madre con i ritmi biologici del feto; questi cicli si coordinano con la risposta della placenta e una migliore organizzazione di essi predice una migliore sincronia madre-bambino a tre mesi;
– Periodo neonatale (prime 6/7 settimane di vita), dove l’importanza di sguardi e carezze è fondamentale poiché pone le basi per una maggiore competenza simbolica, un buon sviluppo cognitivo e una buona salute;
– Infanzia (primi mesi di vita), in cui la sincronizzazione muove su un piano preverbale;
– Fase della scuola materna (dal terzo anno di vita), in cui si sviluppa la competenza simbolica che è predetta dalla sincronizzazione del bambino con la madre e con il padre e ciò promuove anche una buona relazione con gli altri bambini e anche lo sviluppo di capacità morali. Vediamo dunque come sia fondamentale anche la relazione con il padre nello sviluppo psichico del bambino;
– Fase della tarda infanzia/adolescenza (inizia a partire dai 9/10 anni circe e prosegue in adolescenza): i bambini iniziano a sviluppare capacità empatiche ed emotive e sono in grado di cooperare, di percepire il punto di vista dell’altro. È la fase in cui l’attaccamento inizia ad essere rivolto verso il gruppo dei pari, con cui il bambino/adolescente si identifica.
Durante la stesura di questa relazione, sorge però un interrogativo che riguarda quei bambini abbandonati alla nascita e dunque privati delle cure materne. Sono quei casi in cui la sincronizzazione sviluppatasi nella prima fase svanisce o non si sviluppa per come dovrebbe. Ci chiediamo se può esserci veramente un recupero, posto che il bambino venga adottato in tempi brevi e da una madre accudente e considerato che la sincronia è il meccanismo attraverso il quale i comportamenti sociali coordinati riducono lo stress e migliorano la resilienza.
Il cervello affiliativo è alla base della resilienza, concetto contrario e opposto alla vulnerabilità. Per resilienza si intende quell’outcome positivo nonostante le avversità. Tuttavia, come afferma Ruth Feldman “non è stata ancora formulata una prospettiva biocomportamentale globale della resilienza, che integri le sue caratteristiche evolutive con quelle specifiche dell’essere umano”.
Le relazioni madre/bambino, i legami tra pari, l’attaccamento romantico, l’amicizia stretta, la colleganza sono esempi di legami regolati dall’azione integrata dallo striato ossitocina/dopamina. Nell’individuo che fa esperienza delle varie relazioni durante la vita, si apre come una finestra temporale, grazie alla memoria esplicita che gli consente di affrontare positivamente le avversità, sviluppando la capacità di resilienza. Quindi, il ruolo dell’ossitocina nella resilienza è associato nel suo coinvolgimento alla plasticità neuronale, alla socialità e all’immunità.
L’ossitocina è un ormone non nuovo per l’uomo. L’ossitocina risale a circa 500 milioni di anni fa, inizialmente coinvolto nella conservazione idrica ed energetica, ma nel corso dell’evoluzione umana ha assunto una diversa funzione diventata centrale per il travaglio e il parto della donna. L’ossitocina è un ormone che viene rilasciato solo in determinate occasioni poiché prodotto dai neuroni che si occupano della produzione di dopamina e serotonina; essi producono anche L’ossitocina che viene rilasciata solo se si presentano determinati stimoli come momenti di sintonizzazione tra madre-bambino.
La sintonizzazione risulta essere centrale nel suo rilascio perché il bambino vede riconosciuto in quel momento il suo bisogno che istantaneamente viene soddisfatto dalla madre facendo sì che il loro rapporto si rafforzi, ma allo stesso tempo, ciò contribuisce al modellamento del cervello del bambino dato che viene inibito il glutammato. L’ossitocina ha anche un ruolo all’interno del sistema immunitario poiché essa riduce le citochine infiammatorie. Inoltre, la produzione di ossitocina che, agendo, modella il cervello del bambino, permette di rafforzare la memoria a lungo termine e la formazione di network cerebrali per quanto riguarda il legame madre-figlio.
Questo legame sarà lo schema base per tutte le relazioni future dell’individuo. Effettivamente quando Aristotele disse che “’L’uomo è un animale sociale” rese ben nota la sua funzionalità in seguito al continuo sviluppo evolutivo della specie-specifica di cui fa parte. Ed è pur vero che la circostanza in cui gli esseri umani nascono in una condizione “immatura” come qualsiasi altro animale, fa sì che l’uomo abbia l’impellente bisogno degli altri, i cosiddetti caregiver che, nello sviluppo, già collocandolo ad una fase d’inizio che è nella fase embrionale, fino al raggiungimento dell’età adulta, con l’obiettivo di aiutarlo a vivere e maturare, non solo da un punto di vista fisico ma soprattutto da un punto di vista psicologico. Pertanto, si può dire che i processi relativi alla capacità di volgere in termini di processi sociali, sono piuttosto definiti già dopo poco la nascita.
Gli studi, infatti, legati a questo ormone hanno corroborato la sua utilità ai fini della socialità dell’individuo. Interessante è lo studio svolto sui soggetti autistici che oltre a riscontrare eventuali difficoltà a concepire la vita in società dato a un loro deficit legato al sistema mirror, ovvero quello concernente l’empatia e lo sviluppo della cosiddetta Teoria della Mente, data questa carenza di ossitocina tutto il resto del mondo viene percepito distante dal soggetto affetto dalla sindrome. È chiaro che essendo una sindrome ancora in fase di studio necessita di essere studiata e affrontata con la massima cura.
Vi sono degli studi in letteratura che spiegano come l’eccitazione o un’inibizione è deficitaria in molti soggetti autistici ed è stato provato che anche a scopo terapico, una corretta somministrazione dell’ossitocina (generalmente per via nasale) potrebbe sopperire tali irregolarità.
Una ricerca condotta da Peter Scheiffele, dell’Università di Basilea, in Svizzera, e colleghi di una collaborazione internazionale, e descritta sulla rivista “Nature” ha prodotto una scoperta che potrebbe essere particolarmente utile per spiegare la sintomatologia tipica di questa “modalità d’esistenza”. Questa scoperta è circoscritta ad una mutazione genetica spiegherebbe l’anomalia comportamentale di questi soggetti: il gene di riferimento è la neuroligina-3 riscontrata anche in alcuni roditori, riportando comportamenti similari a quelli umani. Sono così riusciti a dimostrare, per la prima volta, che tale mutazione, determinando una sintesi alterata della proteina per cui codifica, interferisce col cammino di segnalazione dell’ossitocina nei circuiti neuronali di ricompensa.
Si è osservata un’alterazione dell’espressione dei geni dell’ossitocina in un modello animale di autismo che alcuni risultati di laboratorio supportano l’ipotesi che l’ossitocina svolga un ruolo importante nella regolazione del bilancio tra segnali di eccitazione e inibizione a livello dei circuiti neurali, un equilibrio responsabile dello
sviluppo degli stessi circuiti. Differenze nei livelli di ossitocina potrebbero, quindi, influenzare lo sviluppo dei circuiti neuronali ed essere alla base di alcuni disturbi del neurosviluppo come l’autismo.
In definitiva si può dedurre che, seppur è vero che la somministrazione di ossitocina possa comunque portare a delle reali migliorie nei soggetti affetti della suddetta sindrome, circoscrivere solo ed esclusivamente tale progresso all’approccio neuroscientifico è particolarmente riduttivo, in quanto, essendo ritenuta tale patologia una “modalità d’esistenza” ai fini di garantire un coerente vissuto ai soggetti, è indispensabile per ottenere una potenziale ed effettiva efficacia del miglioramento in merito ai comportamenti sociali, applicare un percorso terapico e di perfezionamento sociale.
Fobert Giusy
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